Casa di foglie, Mark Z. Danielewski
(66thand2nd, 2019 – trad. S. Reggiani e L. Taiuti)
Quando ho sentito parlare di Casa di foglie la prima volta, il libro era già fuori commercio. Gli appassionati più testardi potevano pensare di acquistarlo su Amazon a cifre improponibili, centinaia di euro per un unico volume, o provare a reperirlo direttamente in inglese.
Se c’è però un romanzo che non consiglierei a nessuno di leggere in una lingua di cui non si ha perfetta e naturale padronanza, questo è proprio Casa di foglie: troppo complesso, troppo lungo, troppo folle per rischiare di perdersi qualche dettaglio lungo il cammino. È una lettura che richiede pazienza, e da più fronti: la pazienza del lettore, che deve vincere il timore del muro di carta per farsi trascinare nella lettura; quella dello scrittore, che senza ombra di dubbio vi ha perso dietro tempo, sonno e sanità mentale, e quella dei traduttori, a cui va il merito di aver trasposto in italiano un geniale delirio artistico e letterario, che trova un suo senso proprio attraverso la padronanza del linguaggio (e dello spazio fisico della pagina).
Quando la casa editrice 66thand2nd ha proposto una riedizione del romanzo, quindici anni dopo quell’unica versione uscita per la Mondadori, procurarselo è diventato un imperativo categorico per me e per tutti gli altri curiosi. Tanto più che la nuova edizione italiana richiama la versione americana in ogni dettaglio grafico, dalla semplice copertina alla sua particolarissima impaginazione. E infatti fin dal primo impatto il libro si dimostra esattamente in linea con le aspettative: immensamente grande, assurdamente impaginato. È un susseguirsi di scritte con front diversi, pagine bianche, pagine con due o tre parole, pagine con il testo dissezionato in riquadri, lunghe note, cancellazioni, rimandi ad altri capitoli, alle appendici, ai reperti, a teorie inesistenti, a teorie esistenti, a un tale universo di saperi che non ha neppure senso provare a investigare sulla loro veridicità.
Talvolta può capitare che fonti inesperte definiscano Casa di foglie una sorta di “librogame”. È il caso di sfatare subito questo raccapricciante mito. I librogame sono volumi in cui le scelte dei lettori influenzano il corso degli eventi, in una specie di videogioco cartaceo. Casa di foglie è un testo compatto in cui il lettore, come in ogni costruzione narrativa tradizionale, può solo fare i conti con un prodotto autonomo e definito. Non è un gioco, è un romanzo. Un romanzo che fonde insieme storie diverse e utilizza lo spazio come un linguaggio a sé.
La categoria corretta è quella di “letteratura ergodica”, un genere letterario in cui «sforzi non superficiali sono richiesti per permettere al lettore di ‘attraversare’ il testo», stando alle parole di Espen J. Aarseth, ideatore del termine. Una definizione talmente generale da richiedere qualche precisazione in più.
Possiamo assimilare Casa di foglie a molti altri casi, anche piuttosto recenti, di libri avanguardistici che raccontano storie al di là delle storie, in cui la narrazione si tende fino a uscire dal supporto fisico del libro tradizionale. Uno degli ultimi casi celebri è La nave di Teseo di J.J. Abrams (Rizzoli Lizard, 2013), che pur non essendo mai stato direttamente catalogato come letteratura ergodica, vi si avvicina molto: l’opera di Abrams è infatti un romanzo lungo e apparentemente ben definito, contornato però da note fintamente scritte a mano da due studiosi che, attraverso la lettura del libro, cercano di svelare il mistero dell’identità del suo autore. Il lettore si ritrova davanti a due storie, quella del romanzo e quella fuori dal romanzo, e non ci sono dubbi sul fatto che la seconda sia molto più importante e avvincente della prima.
Casa di foglie segue indicativamente la stessa logica, portandola però su un piano ancora più raffinato. Laddove La nave di Teseo accompagna il testo con cartoline, lettere, biglietti inseriti fisicamente tra le pagine, Casa di foglie si limita a sfruttare la potenzialità delle pagine per uscire dagli schemi. E il modo in cui lo fa non ha nulla a che vedere con la linearità di La nave di Teseo.
La prima cosa da dire su Casa di foglie è che si tratta di un romanzo estremamente complesso. Tra le sue pagine si allineano tre storie: quella di Will Navidson, di Zampanò e di Johnny Truant. Non solo non esiste una gerarchia d’importanza tra le linee narrative, ma coesistono tutte e tre senza doversi alternare. Casa di foglie racconta infatti la storia del regista Will Navidson e della sua misteriosa casa, scritta da Zampanò e commentata da Johnny Truant: il primo non è mai esistito, il secondo è morto pazzo, il terzo pazzo lo diventa e basta. Forse. D’altro canto, l’unica certezza del romanzo è che qualcuno l’abbia pubblicato, tutto il resto può (e deve) essere messo in discussione.
Il libro si apre con una serie di disclaimer, dalle premesse dei redattori (fittizi?) sulla modalità imperfetta di reperimento delle informazioni necessarie a completare l’opera, fino alla scritta “Questo non è per te” che anticipa l’introduzione con aria minacciosa. Da quel momento in poi, il lettore viene trascinato in un racconto ricco e complesso, strutturato lungo un percorso dal pathos crescente, che richiama in parte l’horror, in parte il thriller, in parte qualcosa di completamente nuovo. Una struttura narrativa che gioca con la mente del lettore attraverso la destrutturazione visiva dello spazio della pagina.
Di fronte a un’opera come Casa di foglie, è inevitabile chiedersi se l’artificio dell’impaginazione assurda sia solo un modo accattivante di attirare l’attenzione o se sia veramente necessario per la storia in sé. A lettura terminata, sicuramente la seconda risposta è quella corretta, nonostante in alcuni passaggi possa rimanere il dubbio. La decostruzione della pagina svolge infatti tre ruoli: è il chiaro segno delle problematiche mentali di Johnny Truant, descrive visivamente la Casa di Will Navidson e, anche se non è un punto strettamente legato alla coerenza della storia in sé, gioca con la mente del lettore costringendolo a uno stato di ansia costante.
Infine, si potrebbe persino suggerire che dietro l’impaginazione particolare emerge lo spettro di un quarto piano narrativo, un attore che passa sempre in sordina ma che nei fatti è il cuore del progetto stesso, il motivo per cui tutto ha un suo senso: la redazione che ha pubblicato il libro. Non mi riferisco alla casa editrice reale che si rapporta con il vero autore del romanzo, ma a quella ipotetica che afferma di essere entrata in contatto con Johnny Truant e di avere avuto da lui il materiale da pubblicare. In una storia in cui non si sa mai cosa sia vero e cosa no, la presenza di questo personaggio astratto rende tutto ancora più inquietante.
Nulla in Casa di foglie è lasciato al caso. Un lavoro attento di analisi del testo può portare alla luce significati e misteri che a una prima lettura passano inevitabilmente in secondo piano. Per concentrarsi sugli eventi principali, il lettore lascia volutamente perdere i dettagli, nonostante questi potrebbero rilevarsi persino più affascinanti della narrazione in sé. Una narrazione che comunque riesce a tenere il lettore in sospeso dall’inizio alla fine, nonostante la mole di pagine e la forma non sempre semplice della scrittura. I personaggi principali sono tutti disegnati in modo profondamente realistico, anche se le loro vite non lo appaiano quasi per nulla. D’altro canto, la stravaganza è anche il cuore del racconto, che non ha mai a che vedere con situazioni normali o ordinarie, in nessuno dei piani narrativi. L’atmosfera macabra viene accentuata fino all’eccesso, in un crescendo inarrestabile che la rende sempre più ansiogena e affascinante.
Ecco perché Casa di foglie è un assurdo e geniale fenomeno letterario. La sua particolarità stilistica è funzionale alla storia, la struttura è coerente, il lettore è la vittima del delirio e non il target commerciale cui vendere un libro scritto “in modo strano”. Non è nemmeno un divertissement fine a sé stesso o un passatempo per lettori annoiati dalla struttura monotona dei libri tradizionali. È un’opera affascinante, autonoma, complessa ma ben definita, lunga eppure avvincente, macabra, intelligente, indimenticabile.
Johnny Truant, nell’introduzione, afferma che anche il lettore, come lui, uscirà pazzo da questo romanzo. Non so se sono impazzita davvero, ma posso confermare che è davvero difficile smettere di pensarci.
Anja Boato
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