Happy hour, Ferruccio Parazzoli
(Rizzoli, 2019)

«Non si può aver tutto, se non quando non si ha più niente»1 fa dire Pirandello a uno dei personaggi de I giganti della montagna. Cosa abbia a che vedere questa frase con un’opera di narrativa uscita lo scorso dicembre, è una domanda alla quale sono costretta a rispondere in maniera più semplice di quanto vorrei: un’associazione libera. Quando, nel nuovo romanzo di Parazzoli, ho letto: «La capacità di soffrire è segno di buona salute»2, il pensiero mi è schizzato via da tutt’altra parte – alla frase di Pirandello, appunto. Eppure, in fin dei conti, non credo che il mio istinto abbia sbagliato di troppo la mira: le famose “maschere” pirandelliane non sono altro che una delle facce del perbenismo occidentale, specialmente italiano e milanese, oggetto della critica di Parazzoli.
In Happy hour, si ipotizza lo scatenarsi a Milano di un’epidemia di suicidi. Il lettore assiste al fenomeno attraverso gli occhi di Mario Spinoza, uomo di mezz’età, alle prese con i risultati di un divorzio e con un figlio suscettibile alle passioni del momento. Professore universitario di letteratura francese, si ostina a voler tenere separata l’attualità del suo presente da quella del presente di Camus, e relega La peste al mondo del passato. Due studenti, Mara e Aram – nomi l’uno inverso dell’altro –, metteranno in discussione le sue certezze.
Indipendentemente dall’approccio al problema, ciascuno dei personaggi cercherà di rispondere alla medesima domanda, la stessa alla quale le autorità non sanno reagire se non con soluzioni fumose: quale sia la natura di quest’epidemia che coinvolge Milano e solo Milano, città ricca e benestante, e i milanesi e solo i milanesi, risparmiando i tanti immigrati che, poveri ma felici per l’essenziale, sanno guardare oltre al cocktail del sabato sera proprio perché non possono permetterselo. Dalle premesse si potrebbe concludere che la causa del suicidio di massa sia proprio la ricchezza. Tuttavia Parazzoli si spinge oltre, non accetta una morale facile ma banale, approfondisce la questione nei suoi dettagli, svela il mistero delineandone i contorni uno a uno di pari passo con il procedere della storia: un giallo sociale, in un certo senso.
All’inizio, si pensa allora che l’origine dell’epidemia risieda nella crisi economica e nella paura della paura, cioè nella paura di temere per il futuro una volta privati del benessere. Il morbo è anche paura della paura, ma non solo. Perché la crisi interessa tutta l’Italia, però unicamente Milano risente di morti. Inoltre, l’epidemia miete vittime senza distinzione di ceto: non possiamo quindi limitarci a sostenere che il benessere, in eccesso, restringa le vedute delle persone, le porti a non ambire più a niente, e quindi restringa anche la loro voglia di vivere, di dare un senso alla vita. C’è questo, ma anche altro. Ovvero, il benessere, comunque diffuso tra tutti i milanesi, li spinge a essere soddisfatti, e di conseguenza a non appellarsi più a valori comuni che diano un senso alla vita. Cosa che in ultima istanza sminuisce l’ambizione e la fiducia nel futuro.
Il romanzo si apre e si chiude nell’unico modo possibile a Milano – con l’happy hour, quell’ora di felicità preconfezionata cui nemmeno i “sette milioni di italiani al di sotto dei mille euro al mese” vogliono rinunciare. D’altronde, i milanesi di Parazzoli non hanno niente in cui credere se non l’happy hour. Ma davvero, nel caso di un’ondata di suicidi, si può parlare di morbo? Senz’altro il precedente in parte simile di Camus legittima la scelta di Parazzoli. Il Male del ventunesimo secolo non sono i totalitarismi e la guerra, ma al contrario la mancanza di qualcosa che unisca le forze e gli intenti dei popoli occidentali. Il benessere genera quella che potremmo chiamare una sorta d’indolenza.
Il rapporto di Parazzoli con i classici della letteratura si configura ancora una volta a metà tra l’omaggio e la sfida al padre di turno, e ancora una volta torna, dopo l’anti-biografia di Dostoevskij ne Il grande peccatore, a imprimere un segno nella sua produzione. E forse è proprio l’uso quotidiano della letteratura a rendere il protagonista di Happy hour immune al suicidio. Non tuttavia nel senso che ci si immaginerebbe. La letteratura, semplicemente, gli offre la possibilità di trovare una scusa, di sostenere che ciò che la letteratura ha descritto in passato non può più accadere nel presente. Mario Spinoza, al di là di quanto riguarda la sua spiccata capacità critica, non è un personaggio né del tutto positivo né del tutto migliore rispetto agli altri milanesi.
Come molti della medesima generazione, si adagia su i suoi stessi problemi: si adagia di fronte alla propria solitudine e alla consapevolezza di provare una qualche simpatia per Mara; si adagia di fronte alle proprie responsabilità di padre; si adagia di fronte a un matrimonio fallito per inerzia o iniziato per sbaglio. Ho specificato “della medesima generazione” perché il libro di Parazzoli tratta anche di un confronto generazionale. In Happy hour non sono i giovani a essere superficiali, non sono i bambini a dover scendere in piazza per poi venire non ascoltati bensì sfruttati a favore della reputazione dei politici. Sono le vecchie generazioni ad aver perso la bussola e le redini del loro mondo, e i ragazzi a possedere quell’energia vitale unica speranza di cambiamento.
Parazzoli, con un’ironia un po’ amara ma realistica, prende di mira le cosiddette autorità, tanto politiche quanto religiose. Infatti la riflessione religiosa è un altro di quegli elementi che pervadono tutto il romanzo. La fede distingue gli immigrati che la coltivano dagli indigeni che l’hanno persa, i sani dai malati, e questo perché la religione fornisce valori e speranza. La fede cui invita Parazzoli è un sentimento molto più laico e aperto di quanto si possa prevedere: nel balzo di un paragrafo si passa dalle sure del Corano ai dodici apostoli, fino a un surrogato di marxismo sui generis. Fede è quell’insieme di ideali che fanno degli uomini esseri vivi, e non pasto degli eventi, della politica, della disinformazione.
Con uno stile leggero e una struttura più da saggio che da romanzo – cosa che forse rende l’azione un po’ lenta, ma non noiosa –, Ferruccio Parazzoli, come Camus, ci avverte di un male latente, che non può essere definito morbo solo perché le malattie sono molto più facili da debellare. Finché ci atteggiamo verso la nostra realtà come verso una lunga ora felice, finché diamo per scontata quell’ora felice e finché non aspiriamo a qualcosa di meglio di quell’ora felice, forse non ci suicideremo, ma non farà differenza, perché vivremo da morti.
«Con quel reddito, dovrebbero essere già tutti morti. Invece sono qui, […] a celebrare l’happy hour, l’ora felice. Vecchi e giovani, vivi e morti»3.
Elisa Ciofini
1 Luigi Pirandello, I giganti della montagna, versione ebook per il progetto Manuzio, p. 55, da Luigi Pirandello, La nuova colonia/Lazzaro/I giganti della montagna, Garzanti, 1995
2 Ferruccio Parazzoli, Happy hour, Rizzoli, 2019, p. 82
3 Ivi. p. 15
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