Viale dei silenzi, Giovanni Agnoloni
(Arkadia, 2019)
Roberto è un romanziere che intraprende un viaggio sulle tracce di suo padre, Alfredo, scomparso all’improvviso quattro anni prima. Non sa se è ancora vivo, se è svanito per volontà sua o altrui; sa soltanto che le ultime notizie sul suo conto provengono da Varsavia, dove l’uomo s’era recato per lavoro. Dunque le sue ricerche partono dalla Polonia, un paese che Agnoloni conosce molto bene, e pertanto descrive con cura di particolari. Eppure, quella che sembra destinata a restare una ricerca in solitaria, un errare solingo, si trasforma in qualcos’altro, allorché Roberto fa l’incontro di Erin, una giovane irlandese.
La ragazza lo avvicina mentre pranza in un tipico bar mleczny, ed egli ha subito la sensazione che ci sia qualcosa a legare entrambi, che quell’incontro non sia dettato dal puro caso, ma abbia un significato superiore. Provando a decifrare Erin, Roberto si convince che anche lei sia alla ricerca di qualcuno o di qualcosa. E forse è proprio per questa avvertita comunione di destini, per questo trovarsi in balia di uno stesso mare, che l’uomo inizia a avvertire nei confronti della ragazza una certa malia, che non tarda ad assumere le fattezze del sentimento amoroso. Eppure Erin nasconde molte cose, e presto Roberto si fa indeciso sulla possibilità di fidarsi o meno di lei. Fino a quando anche Erin scompare. E dunque, oltre che sul destino del padre, il protagonista si interroga anche sul ruolo che quella ragazza riveste nel suo dramma familiare.
Roberto continua allora la sua ricerca, che da Varsavia lo condurrà a Berlino, fino poi alle verdi e incantevoli distese d’Irlanda. Ma il viaggio è duplice: esteriore così come interiore. Muovendosi nello spazio fisico, Roberto si muove anche in uno spazio introspettivo, a scandagliare i ricordi disseminati nella memoria, nel tentativo di comprendere ed elaborare quel ch’è accaduto. La narrazione si offre nelle sembianze di una conversazione tra il protagonista e suo padre, un rivolgersi a lui in seconda persona, un interrogarlo di tutti i quesiti che creano turbolenza dentro di sé. Ma tutto il romanzo è un coro ad una sola voce, un dialogo con interlocutori sordi e muti: un padre scomparso, una città straniera, un passato che non si riesce a lasciare alle spalle.
Questa scelta narrativa viene nobilitata dalla lingua elegante di Agnoloni, che ha rappresentato la sorpresa più piacevole nel mio incontro con questo romanzo. Il suo stile è sinuoso, raffinato e sobrio insieme, mai banale, procede per sovrapposizione d’immagini, scenari, colori, atmosfere, ed esalta il piacere della lettura.
«Ancora quella sensazione. Che tutto si stesse svuotando, risucchiato in un gorgo. Uno spazio oscuro, un corridoio d’ombra dove deboli bave di luce permettevano a stento di distinguere profili di oggetti. Come se la vita fosse scivolata in uno stato di apnea e per pochi, brevi attimi, le cose si mostrassero per com’erano quando nessuno le osservava: traslucide, prive di sostanza.» (Incipit del romanzo, p. 9).
La descrizione degli scenari geografici è altrettanto pittorica, e questi rappresentano un correlativo oggettivo degli spazi interiori del protagonista.
«L’aria di Varsavia era una cenere immateriale e senza nome, che ben s’intonava con la mia inconsistenza; uniforme come il tono medio dei miei giorni, che ormai non contavo più. Il tempo mi si sfarinava tra le mani, che tendevo nello spazio per afferrare, fugacemente, soltanto luoghi» (p. 9).
Di contro ai pregi stilistici, Viale dei silenzi svela allo stesso tempo dei limiti nella costruzione narrativa. La facilità con la quale il protagonista riesce a inanellare testimonianze e informazioni, per quanto giustificata dalla convinzione che sia stato il padre stesso a disseminare le prove perché lui le trovasse, risulta a tratti forzata: penso alla totale assenza di difficoltà dei testimoni nel ricordare limpidamente eventi ordinari accaduti quattro anni prima; penso alla conservazione dell’agenda, del bigliettino da visita, del titolo di viaggio che via via vengono prontamente messi a disposizione di Roberto per aggiungere tasselli all’enigma di suo padre. Oppure mi chiedo perché Erin si sia messa in viaggio per scoprire quello che sua madre le avrebbe potuto svelare con una semplice domanda, come di fatti poi avviene. Lo stesso finale, per queste ragioni, risulta come privo di una certa naturalezza, e non sbroglia ma conferma alcune perplessità che hanno accompagnato soprattutto la seconda parte dell’opera. E nell’economia della lettura, questa accidentalità non risulta sempre credibilmente autentica.
Giuseppe Rizzi
Nota: l’immagine di copertina raffigura il Palazzo di Wilanów di Varsavia, uno dei più celebri monumenti della capitale, costruito nel XVII per il Re Jan III Sobieski.
Adoro le sotire che parlano di viaggi. Il viaggio è uno degli elementi più antichi della letteratura ma riesce ancora ad affascinarmi.
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