Quando l’idillio si rompe, il barbaro ride

La risata del barbaro, Sema Kaygusuz
(Voland, 2020 – Trad. di Giulia Ansaldo)

In un alberghetto sul Mar Egeo, i numerosi vacanzieri si stanno godendo le loro meritate ferie. C’è chi gioca a okey, chi prende il sole sulla spiaggia leggendo, chi preferisce starsene sul molo a chiacchierare con i soli piedi a bagno. Sembra che niente possa scalfire l’atmosfera idilliaca che si respira all’Hotel Colomba Blu, almeno fino a quando, una sera durante una passeggiata in solitaria, Turgay, ospite insieme a sua moglie, non si arrischia a svuotare la propria vescica in mare, provocando lo sconcerto di chi assiste alla scena.

All’inizio non sembra che questo antefatto, anche se si conclude con una bella litigata in pubblico tra i vari ospiti dell’albergo, abbia chissà quali ripercussioni a lungo termine sull’umore generale; eppure, dopo alcuni giorni, accade qualcosa di ancor più sgradevole: tutta la biancheria dell’albergo viene sporcata dalla pipì di qualche sconosciuto, incrinando irrimediabilmente quel senso di «familiare estraneità» condivisa tra tutti i vacanzieri – un’insolenza di chissà quale barbaro, per chissà quale motivo.

Con La risata del barbaro (Voland, 2020), romanzo vincitore del prestigioso premio Yunus Nadi, l’autrice e critica letteraria turca Sema Kaygusuz dà l’idea di voler intraprendere una specie di esperimento socio-antropologico: prende un folto gruppo di personaggi, li fa interagire in un determinato contesto – in questo caso quello da vacanza, apparentemente molto innocente –, innesca una miccia e, una volta saltata la bomba, confronta le reazioni di ognuno con gli atteggiamenti precedenti il fattaccio, valutando le differenze.

Questo modo di operare ricorda molto, sotto certi aspetti, quello messo in scena da Yasmina Reza nel suo Le Dieu du Carnage, famosa pièce teatrale resa ancor più celebre dall’adattamento cinematografico di Roman Polanski uscito qualche anno fa, Carnage. La somiglianza principale tra le opere risiede nel progressivo ribaltamento dei comportamenti dei personaggi, dapprima inclini a sfoggiare tutta l’apparenza di cui sono capaci nel nome delle buone maniere e del quieto vivere, per poi rivelarsi per ciò che sono davvero dando spazio a rabbia, risentimenti, paure.

Nella Risata del barbaro le cose però sono un po’ più complesse: si tratta di un romanzo corale, in cui sulla scena non ci sono solo quattro personaggi come nella pièce della Reza, ma un insieme molto più corposo e eterogeneo: c’è la famiglia allargata che discute solo di malattie e proprietà, incapace di alcuna empatia verso le cose che contano davvero; c’è la coppia sposata da tanti anni frustrata da mille rancori, e un figlio vorace di sensazioni forti, Ozan, forse il personaggio più emblematico del romanzo; ci sono Melih e Ismail, amici e probabili amanti da vent’anni, la cui relazione sembra fondarsi più sull’aggressività che non sull’affetto reciproco; c’è un’anziana professoressa di storia della medicina dal doloroso passato; una coppia di innamorati; poi Nihan e il marito Turgay, custodi di un segreto impronunciabile; e tanti altri.

In mezzo a questo andirivieni di personaggi sul bagnasciuga, a cui si aggiungono anche le voci tutt’altro che marginali dei camerieri dell’albergo, l’occhio del narratore in terza persona salta dall’uno all’altro ospite senza che i passaggi risultino troppo bruschi o improvvisi. È ben presente, e il lettore può avvertirla, la distanza con cui il narratore esamina le sue cavie, osservandole ora più da vicino, ora più da lontano, come una macchina da presa che prima stringe sul dettaglio per poi allargare l’inquadratura, e viceversa.

La voce esterna descrive azioni, ambienti, atmosfere ponendo l’accento sugli effetti che questi sortiscono sulla piccola comunità presa in esame: «Quella sera, appena la stella del pastore cominciò a brillare al tramonto, apparvero all’orizzonte strie color lilla. I vacanzieri furono esposti a una bellezza che non erano in grado di sostenere. Aveva senza dubbio una natura aggressiva. Non sfiorava la pelle, ma colpiva gli occhi. Nell’hotel improvvisamente desolato, le persone adesso guardavano il cielo, indifese».
Con raffinatezza, questa voce scansa la mera descrizione fisica dei personaggi per soffermarsi sui loro corpi in modo diverso: ne coglie il linguaggio non verbale, quello che invece di nascondere le intenzioni inconsapevolmente le lascia trasparire: «Tuttavia le persone che ascoltano davvero colgono il senso profondo delle parole negli occhi di chi racconta […] Se l’occhio è spento e ciononostante la parola brucia oltremisura, il significato di quel che viene detto, in un modo o nell’altro, comincia a deviare».     

Facendo leva su un’ironia sottile che non sempre si coglie appieno, ma che comunque, con la sua costante presenza, definisce il tono satirico dell’intera narrazione, il significato del romanzo risulta abbastanza chiaro fin da subito: l’intera biancheria inzuppata di pipì altro non è che un beffardo escamotage usato al fine di mettere a nudo il lato più oscuro dell’indole umana, fondata sul sospetto gratuito, sul pregiudizio, sulla paranoia, l’astio. Il gesto di sporcare lenzuola e cuscini – che sporca, di conseguenza, l’intimità è lo sghignazzo di chi sa che basta poco per generare il caos e sconvolgere le fragili esistenze di interi nuclei familiari; e quale miglior contesto può asservire a tale scopo se non quello vacanziero, dove la guardia è abbassata e tutte le difese sguarnite?

Mentre gli adulti son sempre più presi dal pettegolezzo, mentre le relazioni si frantumano e le ipocrisie vengono a galla, sancendo così la totale distruzione di quel senso di superficiale comunanza che si era instaurato tra tutti i vacanzieri – quella «familiare estraneità» già citata –, c’è un personaggio che cerca di compiere in solitaria il suo personale rito di iniziazione, di passaggio dall’età infantile a quella adulta: Ozan. Nel tentativo di affermare la sua unicità, la sua identità, il bambino mette in atto gesti man mano sempre più violenti – uccidendo prima una tartaruga, poi un serpente, infine una capra – come se inconsciamente avesse assorbito il linguaggio aggressivo degli adulti, l’unico che conosce e che gli è stato insegnato, e lo avesse usato per determinare il proprio Io. Così il sangue si mischia all’urina, e una risata si sovrappone all’altra, come spiega bene uno dei personaggi nei pochi punti in cui il narratore esterno si eclissa lasciandogli la parola:

«C’è, secondo me, un occulto legame tra il raccapriccio che il bambino adulto ha prodotto spargendo sangue e la confusione creata dall’urina dell’adulto bambino. Due barbari, uno bambino, l’altro adulto, infiltrati nelle nostre vite domestiche, suscitano un satirico scoppio di risa, come due cantori in un contrappunto. Se chiudo gli occhi e tendo le orecchie, se lascio scorrere tutti i rimproveri, le apprensioni, gli insulti, i pettegolezzi, le rese dei conti, le contrattazioni triviali, mi sembra quasi di sentire quella risata segreta che ci solletica all’interno».

Un’ultima considerazione riguarda i corposi dialoghi presenti nel romanzo. Quando l’occhio del narratore esterno si avvicina a questa o all’altra coppia di personaggi, il lettore più che assistere a una conversazione è come se si ritrovasse a origliarla; i contenuti dei discorsi spaziano da un argomento all’altro, dando l’impressione che ci sia veramente troppa carne al fuoco, che siano troppi i temi su cui riflettere – si va da considerazioni sull’orgasmo femminile, ad altre legate al rapporto Turchia-Occidente, all’Islam, e molto altro ancora. In realtà, la varietà degli argomenti trattati è solo diretta conseguenza della natura polifonica e corale del testo. Si raccomanda quindi una lettura molto attenta, e lenta, di La risata del barbaro, il cui particolare effetto straniante non potrà che affascinare.

Angela Marino

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