Chi sono i “Ladri di denti”: intervista a Djarah Kan

Ho incontrato per la prima volta il nome di Djarah Kan – scrittrice, cantautrice e attivista napoletana – tra le pagine di Future. I personaggi del suo racconto Il mio nome mi sono rimasti accanto a lungo e ho aspettato il momento in cui avrei ritrovato quest’autrice sugli scaffali di una libreria con un’opera completamente scritta da lei.

L’esordio è arrivato con Ladri di denti, recentemente pubblicato dalla casa editrice People. In questa raccolta di scritti difficilmente classificabili, che contiene da racconti a riflessioni su tematiche di diversa natura, una voce fresca e decisa parla di razzismo sistematico, ma soprattutto restituisce un ritratto impietoso della civiltà occidentale.

L.M.: Il libro si presenta con delle immagini forti e incisive, a partire dalla copertina e dal titolo. Chi sono per te i Ladri di denti?

D.K.: Essere raccontati. Diventare protagonisti inconsapevoli di una commedia assurda, dove tutto è capovolto e messo alla berlina da una logica che mette costantemente in dubbio la tua umanità e il fatto che esisti. Essere neri, vivere da migranti, ai margini di una società che espelle tutto ciò che non le somiglia, significa per certi versi questo, non avere più uno strumento proprio, in questo caso la bocca, per riuscire a raccontare un senso di sé. L’esproprio che racconto parte da una metafora, quella dei denti cavati dalla bocca, denti che servono a vivere, a comunicare, a esiste. Il furto di cui parlo nel libro, attraverso diversi racconti, è un furto simbolico che parla di un sistema – quello razzista – capace di creare unicamente individui che rubano, colonizzano, sequestrano e manipolano la realtà al fine di riaffermare un principio di supremazia razziale.  I ladri di denti sono tutte quelle persone che ho incrociato nella mia vita e che nel loro approccio personale con le persone nere, si sono messe al loro posto, cercando di dominarle, di possederle, di controllarne l’esistenza.

 L.M.: «Lottavano per il diritto di essere sottomesse. Lottavano per il diritto di essere la prima scelta in quanto donne bianche». Cacciatrici di negre è il racconto che mi ha colpita di più della raccolta: in quanto donna, non ho potuto evitare di rivedermi nella scoperta, quasi improvvisa, di essere femmina, una possibile preda. Non mi ha mai convinta il concetto di “solidarietà femminile”, ma, nella tua esperienza, pensi che un femminismo intersezionale  sia possibile in Italia oggi, e che possa in qualche modo cambiare la narrazione che presenti nel racconto?

D.K.: Il femminismo intersezionale è stato quell’orizzonte che mi ha restituito lucidità, in un momento di forte dolore ed intolleranza, dopo le proteste verificatesi a seguito della morte di George Floyd. Mi sentivo oppressa emotivamente e fisicamente dalla violenza razzista, che giorno dopo giorno si abbatteva sulla mia comunità, sul mio corpo e su tutto ciò che conoscevo e amavo di più. A un certo punto il mio essere nera è diventato un fattore di lotta così imperante che mi sono riscoperta razzista, che per me significa essere incapace di vedere l’altro. E infatti ero diventata cieca. Non vedevo più nulla. Non mi riconoscevo nella sofferenza di una ragazza bianca e italiana, costretta a vivere in un quartiere popolare del Sud Italia, senza che nessuno si accorgesse della sua presenza. Né ero in grado di riconoscere l’oppressione subita da una donna transgender il cui corpo doveva essere costantemente sottoposto al giudizio e la brutalità altrui. Mi sono riscoperta donna, cresciuta nella periferia della working class del casertano. L’oppressione altrui era la mia, avevo capito che anche se con diversi pretesti, quel tipo di controllo di discriminazioni venivano progettati per sfruttare e reprimere tutti i nostri corpi. Quelli delle donne nere, di quelle bianche, degli omosessuali, delle persone transgender. Mi sono ritrovata, e ho recuperato una vita che attraversava tutte le esperienze, non solo la mia.

L.M.: In Conosci la tua storia, citi Robinson Crusoe come un esempio di libro razzista, con un protagonista moralmente aberrante, che viene trattato come un classico e proposto agli studenti senza un approccio critico. Come pensi che il movimento Black Lives Matter e le recenti prese di posizione su alcuni libri, film e serie possano influire sulla nostra fruizione di questo tipo di prodotti culturali?

D.K.: Leggere il mondo che ci siamo costruiti in chiave antirazzista, significa mettere in dubbio tutte, e dico tutte le categorie sociali e culturali di cui ci siamo serviti fino ad oggi per definirci in quanto europei. E mi ci metto anche io, da italo-ghanese, a volte solo italiana, altre volte solo ghanese. Uno sguardo critico e destrutturante non ha nulla a che vedere con la censura che invece è tipica delle società incapaci di ascoltare e di accogliere tutto ciò che non è cristiano, bianco o eterosessuale. La nostra è sempre stata una società razzista, ossia strutturata sull’idea, del tutto incorretta e falsa, che esistano delle razze. Ci portiamo questa convinzione nella lingua, nei modi di fare e di immaginare le storie. Credo che sia estremamente interessante questo momento storico. Ci chiediamo tutti come fare per attraversarlo, senza ricorrere a determinati schemi. La risposta non è univoca, per fortuna, ma parte anche dal cominciare a mettere in questione anche il più piccolo granello di polvere. Ci stiamo ragionando…e ragioniamo allora!

L.M.:Ne Il Re Leone, la protagonista mente ai bianchi che le chiedono come sia fatta l’Africa per «nutrire i loro sogni e le loro aspettative su come sono fatte le cose» (p. 112). Quando hai cominciato, invece, a usare il potere della parola per diffondere una contro-narrazione?

D.K.: Non lo so di preciso. I personaggi che racconto sono spesso bugiardi, come sono stata bugiarda io in certi momenti della mia vita. A volte la bugia serve a creare una distanza di sicurezza tra la fame che hanno gli altri di te, e la tua voglia di non cedere nulla a nessuno. Se una bugia può essere considerata una contro-narrazione, credo di essere sempre stata una scrittrice. Bugiarda per bisogno, mai per passione.

L.M.: Ladri di denti è una raccolta di racconti ma anche un atto politico: spesso siamo abituati a pensare e a farci raccontare la scrittura solo come un atto intimo e personale, in cui le istanze politiche e sociali dovrebbero essere secondarie, subordinate all’esigenza di narrare qualcosa. Come si conciliano in te questi aspetti della creatività?

D.K.: Mi piace raccontare storie e leggerle, soprattutto. Le storie che ricordo di più sono quelle i cui personaggi autodistruggono la propria normalità, gettandoti in faccia il quotidiano, quasi fosse qualcosa di mai visto prima. Queste storie ti spezzano perché senza volerlo sovvertono l’ordine prestabilito, diventando di fatto politiche. Adoro inventare personaggi che siano capaci di vivere la propria vita rompendo le convinzioni del lettore. È più o meno con questo spirito che ho dato forma ad ogni singolo personaggio.

L.M.: Ladri di denti è il tuo libro d’esordio. Che cosa ti auguri per il suo percorso tra le mani dei lettori e per il tuo futuro di scrittrice?

D.K.:Che abbiano paura di loro stessi, leggendo una bella storia.

a cura di Loreta Minutilli

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