Chi se non noi, Germana Urbani
(Edizioni nottetempo, 2021)
Senza neanche aver cominciato a leggere Chi se non noi, esordio di Germana Urbani per nottetempo, sono due gli elementi che saltano subito all’occhio del lettore: la fotografia di Luigi Ghirri in copertina, dal titolo Brest 1972, e la mappa, contenuta prima della dedica, in cui si delinea la zona del Delta del Po e i suoi paesi, tutti disseminati intorno alle varie diramazioni del fiume. Se da un lato l’immagine di Ghirri, che ritrae due corpi dai contorni indefiniti, lascia intendere quanto sfocature e ambiguità, sia percettive sia relazionali, siano parole chiave all’interno della storia che si sta per raccontare, la cartina serve a esplicitare l’importanza dell’area geografica nel romanzo, un’area che, con tutte le sue contraddizioni, ha la forza di plasmare menti, emozioni e paradigmi di vita.
Il libro si apre con Maria, protagonista e voce narrante, che sta raggiungendo Ocaro, paesello sul Delta, dove abita il suo compagno Luca. Sono molti anni che stanno insieme, più di una decina, e Maria vuole fare la svolta decisiva con lui: andare a convivere, mettere su famiglia. Maria vive e lavora a Ferrara in uno studio di architetti e sogna di sfondare nell’ambito della bioarchitettura, ma farebbe di tutto pur di stare con Luca, anche rivedere le sue aspirazioni professionali. A Luca, il quale non vuole spostarsi ma lavora anche lui nello stesso studio – e che si è iscritto e laureato, dopo aver passato tanti anni in una pescheria, solo grazie al supporto della sua compagna – Maria propone infatti una soluzione: lei va a lavorare nell’ufficio tecnico del Comune di Ariano dove ha vinto un concorso pubblico, così che lui possa esser assunto con un contratto più solido nello studio. Luca, senza dirlo direttamente, accetta.
«“Non devi farlo per me,” dice infine abbracciandomi nell’oscurità.
Io, stretta a lui, dico che lo faccio per me. E non è mai stato così vero.
Lì, quella sera di giugno, decido che la casa su cui poggio la schiena sarà la mia casa. In quella piccola corte circondata dal mais crescerà il mio futuro.
Il mio contratto a tempo indeterminato, conquistato senza sconti, in cambio del resto della mia vita con lui.
Non voglio altro.
E lui lo sa.» (pag. 26)
Due mesi più tardi, il lettore ritrova Maria che si sveglia in un incubo. Una volta fatti tutti i passaggi di consegna in studio e aver accettato il lavoro ad Ariano, la giovane donna è stata lasciata da Luca per un’altra; il crollo emotivo e psicologico che esperisce è dalla portata a dir poco terrificante, avendo perso ogni contesto della vita di cui andava così fiera, e dunque le fondamenta della sua normalità. Da qui in poi Maria, nella lotta quotidiana contro lo spettro mentale del suo ex e un forzato ritorno a casa nel paese di Scanarello, ripercorrerà la loro storia d’amore, soffermandosi soprattutto su tutti quei dettagli e ricordi che, come dei frammenti che la memoria porta a galla nei momenti decisivi, solo ora lei si rende conto, lasciavano presagire la fine e la vera natura di Luca.
C’è una particolare analogia che in Chi se non noi si scorge sin dall’iniziale svolta narrativa, ed è quella con cui si mette in relazione territorio e interiorità: a causa dell’estrazione di acqua e metano dal sottosuolo, le terre deltizie del Polesine sono state spesso alla mercè di fenomeni di subsidenza, con conseguente aumento dei rischi di inondazione. Come la subsidenza indotta dall’attività antropica porta allo sprofondamento del terreno sotto il livello di sicurezza, così la crisi innescata da Luca provoca l’inabissamento di Maria sempre più dentro il suo dolore, nell’ossessione che lui possa ritornare, nell’incapacità di staccarsi e di elaborare il lutto come si conviene; come l’uomo estrae materiale dal sottosuolo, così Luca estrae da Maria tutto ciò che lei ha di prezioso – il lavoro a Ferrara, le sue carissime ambizioni, la sua forte volontà di lasciare il segno –, impadronendosene senza complimenti.
Il legame con il territorio non si esplicita però solo in relazione all’interiorità della protagonista, ma anche all’inconscio collettivo di tutti gli abitanti del Polesine. Ogni individuo che appartiene al Delta è, come afferma Maria, «sempre pronto alla fuga», tanto è forte la paura dell’acqua alta e ancora vivido il ricordo delle alluvioni che nel tempo hanno devastato l’area, soprattutto quella dell’autunno 1951, centrale nel romanzo, e avvenuta ad oggi quasi settant’anni fa. Un’ossessione timorosa che sembra essere scritta nel cuore di ogni abitante, ma che – allo stesso tempo – convive con la profonda convinzione che non si possa esser contaminati da pensieri foresti di evasione verso l’esterno, e che non ci sia altro a cui aspirare se non rimanere radicati in quei luoghi lavorando nei campi o al servizio della propria comunità.
Riguardo ciò, Maria invece è sempre andata controcorrente. Da quando suo nonno gli regalò la sua prima macchina fotografica, una Polaroid, sapeva che sarebbe stata capace di crearsi delle aspettative altre rispetto a quelle che la sua famiglia aveva per lei. L’intenzione di andarsene dal Delta l’ha sempre mossa in avanti nella creazione del suo personalissimo nucleo identitario, che vedeva nel desiderio di autorealizzazione e emancipazione la principale direttiva da seguire per farsi da sé con compiutezza, trovando infine un proprio spazio nel mondo.
Ma, dopo che Luca, con malevolenza taciuta, espropria la giovane donna di tutto questo, l’accanimento di Maria nei suoi confronti – che all’inizio si percepisce come eccessivo, ma che poi trova piena giustificazione – sembra tradire un’altra volontà: quella di vedere Luca tornare da lei, sì, ma insieme a tutto il resto – tutti i suoi sogni e desideri di vita altrove, oltre il Delta. Nell’attesa che ciò accada, se mai ciò accadrà, Maria non potrà far altro che osservare la sua esistenza prendere la strada più inaspettata possibile, come se quest’involuzione altro non fosse che il risultato di un fato funesto contro cui per troppo tempo Maria aveva lottato inutilmente, poiché in realtà a ciò era da sempre destinata: «I sogni non si realizzano mai, mi ha detto una volta mio padre. La risacca ti porta dove devi stare».
Chi se non noi è un romanzo che disattende qualsiasi aspettativa preconcetta, poiché, data la rottura iniziale, ciò che generalmente ci si potrebbe aspettare è il resoconto, in potenza, di un percorso di rinascita e riscatto. Ma il testo di Germana Urbani non ricalca il movimento ascendente dei classici libri da lieto fine, anzi: mostrando invece tutte le contraddizioni e le zone oscure che animano l’Io narrante («“Là dove la luce non si incide,” spiegai dritta sulla schiena appoggiando la mano sinistra sul volto, “cresce l’ombra”»), l’autrice traccia le infinite battute d’arresto che spesso la vita ci sottopone nostro malgrado. Con una prosa che riesce a tirar fuori tutta la vulnerabilità dai suoi personaggi scorrendo via come seta sulla pelle, Germana Urbani sfuma la linea dell’orizzonte dei caratteristici paesaggi del Polesine e dell’anima di chi li abita, ridonando forza narrativa allo stesso territorio raccontato da Celati e fotografato da Ghirri in passato mentre, con sapienza, mischia mare e cielo, terra e acqua dentro di noi.
Angela Marino