Acari – Giampaolo G. Rugo
(NEO. – 2021)
Leggere Acari, il primo libro di Giampaolo G. Rugo, uscito lo scorso tredici maggio per Neo edizioni, è come starsene seduti a fissare un orologio le cui lancette ogni tanto, non si sa quando, vanno un po’ indietro. Ma alla fine, quando ci si alza, è passato il tempo che è passato, e l’orologio segna inspiegabilmente l’ora giusta.
Ambientato prevalentemente a Roma e soltanto un po’ altrove, Acari salta avanti e indietro nel tempo fra gli anni Ottanta e oggi, raccontando molte storie, ma allo stesso tempo tracciando un solco sul quale se ne deposita una principale. Senza possedere uno spazio suo è comunque lì, sottile come la polvere, annidata negli angoli come la polvere, grigia come la polvere. Mi piace pensare che, oltre al riferimento esplicito all’interno della narrazione, il titolo si riferisca anche a questa consistenza polverosa del narrato, come se proprio la miriade di eventi e personaggi fossero gli acari che danno il nome all’opera.
Durante il primo racconto nonna Adele, la donna più vecchia del mondo, parla in prima persona. Non è per nulla incantata dalle luci dello studio televisivo. Ci è entrata la prima volta all’età di cento anni e da ventinove ci si ritrova il giorno del suo compleanno, per festeggiare quello che ormai è a tutti gli effetti un evento. La spettacolarizzazione di ogni aspetto della vita umana, dal più banale al più surreale, ricorda quasi l’atmosfera di Papà va in TV, racconto (anche quello) che apriva (anche quello) la raccolta Ultima lacrima di Stefano Benni.
Leggendo nel secondo racconto di ragazzi al liceo e nel terzo di un padre che vive di ciò che sarebbe potuto essere, visto con gli occhi incantati del figlio, si è portati a pensare che quella che si ha di fronte sia una raccolta, ben scritta, ma una raccolta. Il sospetto aumenta con il quarto racconto. Si comincia anche ad apprezzare il ritorno di alcune tematiche e l’acume con cui l’autore suggerisce l’ambientazione cronologica della storia senza esplicitarla, lasciando giusto qualche indizio nei dettagli, come l’abbigliamento dei personaggi o il fatto che Baggio giochi ancora.
Ben presto però, ci si rende conto che il testo che si ha di fronte è un mostro strano. Tornano personaggi secondari, o addirittura comparse, dei racconti precedenti. Sono passati molti anni, sono diversi, è cambiata l’atmosfera e a volte è cambiato anche lo stile, con il narratore che passa dalla prima alla terza persona, o viceversa. All’inizio si ha quasi l’impressione di trovarsi di fronte a un’altra storia nuova, a un’omonimia, magari addirittura non voluta. Ma poi, sempre a forza di dettagli, l’autore riempie vuoti che il lettore non credeva neanche ci fossero, apre le storie chiuse e le collega fra loro. Quelli che sembravano anelli di una catena, connessi soltanto da un accenno tematico o una città in comune, si rivelano parti di un’unità, incastrate insieme, ma non come pezzi di un puzzle, neppure come ingranaggi di un macchinario, bensì come organismi vivi di un tutto organico e concreto, come acari che compongono la polvere.
La penna di Rugo è misurata, spesso sono i personaggi a parlare e lo fanno con la voce giusta. L’autore ha l’abilità, e dal curriculum drammaturgico anche l’esperienza, di introdurre ambienti e ambientazioni con poche e precise parole, esaustive ed efficaci. Un racconto che inizia con «Che forte Papo» (p. 35) ha già condensato in tre parole tutta l’ammirazione che un figlio può provare per un padre. L’immagine di un milione e mezzo di culi che «producono milioni di chili di merda che si riversano nel mare in cui la mattina dopo lo stesso milione e mezzo si farà il bagno» (p. 137) è una delle descrizioni meglio riuscite e più d’impatto del concetto di turismo di massa.
Ma ciò in cui la tecnica eccelle è proprio la costruzione narrativa. La struttura finisce per essere un mosaico fatto di forme e colori diversi. Italiano impeccabile e accento romano, dialoghi scenici e flashback lunghi un racconto intero. Molti dei racconti partono da un generico presente, che è futuro per un altro racconto e passato per un altro ancora, e tornano indietro, a farci vedere meglio quello che prima eravamo riusciti soltanto a sbirciare.
Rugo ambienta la storia nello spazio, troppo spesso lasciato vuoto, del diventare altro: diventare adulti, diventare vecchi, fallire e morire. Anestetizza la frustrante sovraimpressione “Vent’anni dopo” facendoci vedere cosa è successo in quei vent’anni, cosa è cambiato, che significato hanno gli eventi taciuti e in che misura i dettagli sono importanti e le cose importanti possono essere dettagli. L’autore non si esime neanche dal connotare chi questi dettagli e queste cose importanti sarebbe deputato a discernerli e immortalarli. I media, tanto d’informazione quanto d’intrattenimento, hanno uno spazio importante nella narrazione, soprattutto nella misura in cui si rapportano con la fama e con il suo essere effimera. I media di Acari toccano le vite delle persone normali. Molti dei personaggi sono star del nulla: calciatori che avrebbero potuto essere campioni, subrette in rovina, anziane famose in quanto anziane e Re della televisione che muoiono e vengono dimenticati. Tutte queste celebrità minori hanno i loro spazi minori, artificiali, angusti e grotteschi, come i trafiletti a pagina ventisei di un quotidiano sportivo o studi TV troppo pieni d’ipocrisia per lasciare spazio alle persone
Sebbene alla fine ci sia una storia vera e propria, con tanto di conflitti, colpi di scena e una protagonista, il protagonista vero finisce per essere il tempo: il tempo che non torna più, «la banalità del tempo che passa» (p. 88), gli oggetti e le persone che vengono «sepolti dal tempo» (165), l’inesorabile tic tac di un orologio, che per quanto possa sembrare che torni indietro, percorre comunque imperterrito il suo cammino. Non è un caso che oltre al primo racconto anche molti altri narrino dei compleanni dei protagonisti. O che l’autore abbia spesso cura di specificare le età dei personaggi. In questo fluire perpetuo Giampaolo G. Rugo accende e spegne alternativamente le luci delle storie che racconta, storie di comparse per un romanzo di comparse. Ne viene fuori una città composita e plurale, sempre illuminata, ma allo stesso tempo sempre al buio.
Giuseppe Vignanello