Nell’opera di Fenoglio le colline delle Langhe non assumono un significato solo in quanto sfondo degli scontri partigiani, ma anche per quanto riguarda la rappresentazione della società contadina. In particolare, nei Racconti del Parentado e del Paese esse si costituiscono come universo altro, che assurge a una dimensione epica, governato da un suo proprio sistema di leggi e credenze. Quello delle Langhe è un mondo esclusivo – ovvero che tende a chiudere fuori ciò che non vi appartiene – nel quale la natura non assume ancora i caratteri del paesaggio.
La prima scoperta del paesaggio in un contesto artistico avviene «nelle Fiandre nel Quattrocento, dove si registra la più antica attestazione linguistica e la prima comparsa nell’arte figurativa»[1]. Il paesaggio è dipinto dai pittori fiamminghi come entità circoscritta dallo sguardo umano, è un «ritaglio delimitato, giudicato o percepito esteticamente, che si stacca dalla natura circostante, e che tuttavia rappresenta una totalità»[2]. Una seconda scoperta del paesaggio avviene con il Romanticismo, ma nel XIX secolo il paesaggio non è che «illusione dei sensi disarmati, […] in quanto non c’è vera armonia fra il volgere della notte nel giorno, di una stagione in un’altra da un verso e la vita quotidiana dall’altro, talché la natura diventa spettacolo da degustare, e come tale può alla fine annoiare, essendo stati tagliati i vincoli di carne che legavano l’uomo al ciclo celeste»[3].
La delineazione del paesaggio comporta l’introduzione di una linea di demarcazione netta tra l’essere umano e il mondo circostante. Ciò comporta la perdita dell’armonia che precedentemente vigeva e che garantiva un sistema all’interno del quale i fenomeni umani si intersecavano a quelli naturali, e il tempo ciclico della natura dirigeva le attività dell’uomo. Per poter ricostituire la simbiosi perduta tra uomo e natura, elemento imprescindibile è l’attenzione al sostrato mitologico, che presenta le condizioni adatte al manifestarsi di questo legame.
Fenoglio rappresenta le Langhe contadine come un sistema chiuso, penetrabile da chi ne è esterno tramite le sporadiche apparizioni della corriera da Alba (come in Superino e Ferragosto) e la cacciata dal quale è vissuta come caduta dall’Eden, tramite un lento e penitente viaggio su carro (Quell’antica ragazza; L’addio):
«Sul carro erano tutti silenziosi e nessuno si voltava indietro. Prima di voltare nell’ultima curva della pedaggera, il padre fermò il cavallo e disse ai figli: – Figlioli, voltatevi e guardate bene Murazzano perché è l’ultima volta che lo vedete. Tutti si voltarono in silenzio […] Poi si rivoltarono e l’uomo ridiede al cavallo e se ne andarono. Lui non seguì oltre, perché […] l’ultima curva della pedaggera era per lui la fine del mondo».[4]
I paesi in cui sono ambientati i racconti presentano dei confini tangibili («l’ultima curva della pedaggera»), che sono al contempo indefiniti: questo elemento concorre, insieme alla mancanza di coordinate temporali precise, a collocare le narrazioni in una dimensione «astorica ed esemplare»[5], che è propria dei racconti mitologici. Allo stesso modo, gli abitanti delle colline sono figure archetipiche ricorrenti, si vedano le donne fedeli – sia nell’accezione affettiva sia in quella spirituale – e speranzose, gli uomini miscredenti e rassegnati (Un giorno di fuoco; Ma il mio amore è Paco; Pioggia e la sposa); i forestieri, portatori di sventura (Superino; La novella dell’apprendista esattore; Quell’antica ragazza).
Nella dimensione del mito, l’uomo non ha ancora reciso il suo legame con la natura, ed essa può ancora farsi elemento attivo e partecipe all’interno della narrazione, intersecandosi ai comportamenti umani e influenzandoli. Il caso più esplicito è rappresentato dal racconto Pioggia e la sposa, nel quale il fenomeno atmosferico si fa rivelatore dell’interiorità dei personaggi: il protagonista e il cugino prete terrorizzati dal temporale che sono costretti ad attraversare, la zia determinata a raggiungere il pranzo di nozze e certa della protezione divina.
«– Mettiti pure il cappello, ché andiamo. Credi che per un po’ d’acqua voglio perdere un pranzo di nozze?
– Madre, questo non è un po’ d’acqua, questo è tutta l’acqua che il cielo può versare in una volta. Non vorrei che l’acqua c’entrasse in casa con tutti i danni che può fare mentre noi siamo seduti a un pranzo di nozze.
– Chiuderò bene, – disse lei.
– Non vale chiudere bene con l’acqua, o madre!».[6]
Il discorso circa la pioggia innesca inoltre un doppio sistema interpretativo del fenomeno (e proprio questa mancanza di univocità è sintomatica del ruolo non paesaggistico della natura): per il figlio l’acqua rimanda a un diluvio punitivo, indice del suo credersi – o essere – peccatore (nel finale del racconto viene svelato che egli rinuncia all’abito sacerdotale); mentre per la madre è elemento noto e innocuo, che svolge funzione necessaria alla ciclicità della vita. Anche nel racconto Superino la natura diviene elemento cardine della narrazione. È l’alternarsi dei fenomeni atmosferici a dare avvio al resoconto della morte dell’omonimo personaggio:
«– Era un destino scritto. Per esempio, non fu un porco destino che quel pomeriggio fosse di pioggia e vento?
– E pensare, – disse lei –, che per tutta la mattina c’era stato un bellissimo sole. Anche un po’ di vento, ma di quello che non disturba, anzi rallegra. Poi, di colpo, mentre si stava finendo di pranzare, il cielo si annerì e il sole fu ingoiato. Spinte dal vento c’erano arrivate tra capo e collo, sempre dalla parte di Mombarcaro, certe nubi nere come l’anima di Giuda. Col primo tuono venne giù l’acquazzone.
– Comprendi il destino? – mi disse Menemio. – Venne giù per poco, per non più di venti minuti, ma infradiciò tutta la terra, senza rimedio, anche perché dopo non rispuntò il sole.
– Sì, – feci io, – ma che c’entra tutto questo con la fine di Superino?»[7].
I due narratori, marito e moglie dell’osteria di paese, interni al mondo simbolico delle Langhe, ritrovano nell’avvento della pioggia il nesso causale con il destino di Superino: per loro, mantenendo la propria vita vincolata a quella del cosmo naturale, è chiaro che a un mutamento dell’ambiente corrisponda un mutamento dell’uomo. D’altra opinione è il protagonista, che vive all’esterno di quel mondo e che solo occasionalmente vi può soggiornare: l’incapacità di comprendere la relazione tra la pioggia e la fine di Superino è dovuta all’interiorizzazione nel protagonista-narratore del concetto di paesaggio e, dunque, di una concezione del temporale che può essere sfondo, ma non causa di un evento riguardante la sfera dell’uomo.
A corroborare l’unione dei personaggi delle Langhe con il loro ambiente è il lessico utilizzato e condiviso. Ad esempio, il gorgo si ripresenta nei vari racconti (Superino; Il gorgo; L’acqua verde) non solo in quanto mulinello d’acqua, ma come rimando immediato al suicidio. «Nostro padre si decise per il gorgo, e in tutta la nostra grossa famiglia soltanto io lo capii, che avevo nove anni ed ero l’ultimo», recita l’incipit de Il gorgo; anche in questo caso l’indicazione di un elemento naturale allude a una condizione umana, instillando nel lettore la sensazione di un pericolo non chiaramente definito. Il linguaggio è divisivo tra abitanti e forestieri anche nel racconto Un giorno di fuoco, nel dialogo tra i contadini di San Benedetto Belbo e il carabiniere meridionale:
«– Ditemi com’è il terreno dietro la casa, – ordinò il carabiniere Aquino.
– Dunque, – fece Fortunato, e chiuse gli occhi per meglio vedere e descrivere. – Dietro la casa c’è un campo a meliga, un campetto.
– Piccolo campo di granoturco. Poi che ci sta?
– Una striscia di gerbido.
– Di che? – strillò il meridionale.
– Terreno non coltivato.
– Bene. E poi?
– Poi c’è subito il rittano.
– Ma che è un rittano?
– Un rittano. Credo proprio che si dica così anche in italiano.
– Mai sentito.
– Quello è un rittano, – disse allora Fortunato additando un rittano a sinistra.
– Ho capito. Valloncello. Grazie».[8]
Come nel dialogo citato da Superino, la conversazione avviene tra un personaggio del luogo e uno esterno: per il carabiniere, non appartenente al mondo contadino piemontese, i termini utilizzati da Fortunato non sono portatori di significato, e devono essere visti e tradotti per poter essere compresi. In questo estratto la distanza tra i due si palesa sullo stesso piano, quello visivo: per il contadino la conoscenza del territorio non deriva dallo sguardo, bensì dall’esperienza dell’ambiente naturale; al contrario, per il carabiniere – che, come il protagonista-narratore di Superino, viene da un mondo in cui la natura è già divenuta paesaggio – la possibilità di comprendere il significato di «rittano» non può prescindere dall’uso dello sguardo, dall’osservazione di quel ritaglio di natura che la parola definisce.
Fenoglio, riconnettendosi all’atemporalità dell’età mitologica, crea dunque un universo letterario della Langa all’interno del quale il connubio con la natura garantisce la possibilità di trovare un senso nella vita di ciascuno, ricercandolo non nell’esaurimento della singola esperienza ma nelle reazioni che si ripercuotono sull’ecosistema in cui gli individui sono inseriti. L’uomo, insieme con la natura, può ancora seguire un’alternanza ciclica della vita e della morte, per la quale all’una non è consentito sussistere senza la certezza dell’altra.
Enrico Bormida
[1] V. Pesce, Letteratura e paesaggio in Beppe Fenoglio, «Studi Novecenteschi», Vol. 37, No. 79, 2010, p. 123.
[2] M. Jakob, Paesaggio e letteratura, Olschki, 2005, p. 14.
[3] E. Zolla, I mistici dell’Occidente, vol. I, Adelphi, 1997, p. 35.
[4] B. Fenoglio, L’addio, in Tutti i racconti, Einaudi, 2007, p. 303.
[5] V. Boggione, A lezione da Verga, in La sfortuna in favore, Marsilio, 2011, p. 92.
[6] B. Fenoglio, Pioggia e la sposa, op. cit., p. 270-271.
[7] Ibid., p. 261.
[8] Ibid., p. 289.
Bellissimo articolo. Amo molto Fenoglio e in particolare “La malora”
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