Consolazione, Michele Orti Manara
(Rizzoli, 2022)
A Roccasa tutti si conoscono. Le famiglie e i cognomi sono sempre quelli, si sa: nei piccoli paesi non si può avere segreti, perché non c’è abbastanza spazio per averne. I misteri, quando ci sono, diventano consuetudini: ci si abitua alla loro presenza. E se anche si deve convivere con forze inquietanti, di cui si avverte la presenza ma che non ci si riesce a spiegare, si impara ad ignorarle, tanto se si è contadini, quanto se si è uomini di chiesa.
Per la verità un mistero c’è, a Roccasa. C’è una stirpe di donne che tutti chiamano sarachie: in paese sono malviste perché sono una sorta di streghe, che di madre in figlia si trasmettono una scienza silvestre di cui solo il loro sangue sembra trattenere la conoscenza. Per quanto inquietanti agli occhi dei compaesani, però, le sarachie sono fondamentali per la pacifica convivenza. Una guerra silenziosa accade infatti a Roccasa, di generazione in generazione: quella degli uomini contro le donne. Per un imperscrutabile motivo, dopo il tramonto tutti gli uomini – anche quelli che paiono più miti e mansueti – diventano violenti e irritabili, massacrando mogli e figlie con crudeltà a volte al limite del sadico.
Quando la furia finisce e gli uomini crollano nei letti, stanchi sotto il peso di sonni profondissimi, le donne tirano su i corpi stanchi, pestati e martoriati e si trascinano fino alla casa della sarachia del paese. A lei spetta un compito fragile e importante: guarire le donne dal dolore e dai segni delle botte. Le sarachie non possono fermare i pestaggi, ma possono nasconderne gli effetti: così Teresa, figlia di Nives, da una fessura nel pavimento osserva sua madre consegnare decotti d’erbe, impacchi di foglie dalle proprietà curative, centellinare parole dolci e forti, e impartire insomma la consolazione.
Teresa si gode quel che resta dell’infanzia, finché ci si trova ancora: meglio scorrazzare per i campi con Marcello e Tobia, e farsi pettinare da Evelina, che è così brava a intrecciarle fra i capelli le margherite che coglie dal prato. Ma Teresa sa che sua madre è la sarachia, che anche la madre di sua madre lo era, e sa che presto toccherà a lei. Ci sono tante cose però che Nives non le ha ancora insegnato. Ad esempio, che la maledizione di Roccasa non è senza ragione, ma ha avuto origine da qualcosa di ancestrale e ancora vivissimo, che si nasconde nelle viscere della terra, ed è legato a doppio filo con la vita del paese, delle montagne, degli alberi, e soprattutto delle sarachie.
Nives è abituata a camminare per Roccasa sentendosi quasi fluttuare, forse per reazione agli sguardi malevoli che altrimenti la appesantirebbero, rendendole difficile ogni movimento. Ogni sarachìa vive intrappolata in questa contraddizione: ha un legame così forte con i suoi compaesani da non aver bisogno della loro approvazione, è salda al centro della vita del paese e allo stesso tempo è qualcosa di diverso, indipendente, laterale.
Mano a mano che la narrazione prosegue, si dipanano le fitte trame tese che legano le esistenze delle donne e degli uomini di Roccasa; su tutti, l’ombra della sarachia si staglia densa, mostrando che nello stesso modo in cui il corpo può subire vessazioni terribili, può anche essere il luogo d’origine di una magia inspiegabile eppure estremamente umana, la cui potenza è forte e ferma come il suono di un tamburo di battaglia.
Lo abbiamo visto più volte negli ultimi tempi, questo ritorno alle ambientazioni silvestri e un po’ folkloristiche. Michele Orti Manara si distingue per un’originalità anzitutto linguistica: i parlanti di Consolazione utilizzano spesso dei termini dialettali, che concorrono proprio alla costruzione di questa provincialità indefinita, ma evocativa, segno di un intento molto preciso. Per questo motivo l’universo che Orti Manara ha costruito ci risulta così facilmente comprensibile: è un luogo di fiaba (per quanto oscuro) perché fa di tutto per essere lontano dalla precisione di spazio e tempo, ma allo stesso tempo potrebbe benissimo essere il teatro di una qualsiasi delle storie che si leggono quando si è bambini.
La favola buia di Michele Orti Manara fa perno sulle soglie fondamentali dell’esistenza umana: la comparsa del menarca, l’affacciarsi della vecchiaia, la pubertà, la gravidanza, la nascita e la morte. La bellezza e l’armonia del racconto stanno nell’incastro preciso con cui questi tasselli vengono combinati, facendone un’opera tutt’altro che futile: è equilibrata, raffinata, potente.
Non meno importante: è un libro che ha la caratteristica (rara, oggi) d’avere delle tematiche, oltre che degli argomenti. Trascende la sua mera trama per riallacciarsi a significati più profondi, lasciando la sua impronta più a lungo del tempo necessario a leggere qualche centinaio di pagine, spingendoci a interrogarci su quanto di quel che chiamiamo magia provenga dalla carne, dal sangue, dalla morte – e dall’uso che ne facciamo.
Emma Cori