Nel 1548 Martin Guerre, un agiato contadino di Artigat, sui Pirenei, in seguito a un contrasto col padre lasciò il suo villaggio, la moglie Bertrande e il figlio appena nato, e sparì nel nulla. Fece ritorno solo otto anni dopo –o meglio, a tornare fu un uomo che gli somigliava moltissimo, che riconosceva tutti gli abitanti di Artigat e che ricordava ogni dettaglio del passato di Martin. Inizialmente la famiglia lo riaccolse con gioia, ma col passare degli anni affiorarono dubbi sempre più consistenti sulla sua identità. La situazione esplose nel 1560, quando il presunto Martin Guerre fu chiamato a comparire davanti al Parlamento di Tolosa con l’accusa di essere un impostore di nome Arnaud du Tilh, detto Pansette. La denuncia era stata formalmente presentata da Bertrande, ma in realtà a prendere l’iniziativa era stato Pierre Guerre, lo zio di Martin, che durante la sua assenza aveva ricoperto il ruolo di capofamiglia e ora vedeva ridimensionata la propria autorità. Durante il processo furono ascoltati moltissimi testimoni, che riconobbero nell’imputato alternativamente Martin Guerre o Pansette, senza che si arrivasse a una conclusione schiacciante in un senso o nell’altro. I giudici stavano infine per risolversi in favore dell’accusato, quando improvvisamente si presentò in aula un uomo senza una gamba, che dichiarò di essere il vero Martin Guerre e fu riconosciuto come tale da tutta la famiglia. Il giudizio della corte cambiò in extremis e l’imputato fu condannato a morte.
Questa vicenda incredibile e romanzesca diventò subito oggetto di due resoconti: l’Arrest memorable di Jean de Coras, uno dei giudici del processo, e l’Admiranda historia di Guillame Le Sueur, probabilmente basata sulle testimonianze di un altro giudice. Col tempo Martin/Pansette diventò quasi un archetipo dell’impostore e continuò a fare capolino in romanzi, trattati giuridici e morali. La scrittrice americana Janet Lewis lo incontrò in una raccolta di processi indiziari e ne rimase così affascinata da scrivere nel 1941 il romanzo breve La moglie di Martin Guerre (tradotto in italiano da Eva Allione per Racconti Edizioni, 2021). A questo seguì un film di Daniel Vigne con Gérard Depardieu, che si avvalse della consulenza della storica Natalie Zemon Davis. Quest’ultima, a sua volta colpita dalle potenzialità speculative della vicenda, approfondì le ricerche e nel 1982 pubblicò il saggio Il ritorno di Martin Guerre (tradotto da Sandro Lombardini per Einaudi nel 1984, poi riproposto da Officina Libraria nel 2022).
Così la storia di questi contadini dei Pirenei ha attraversato i secoli, passando tra le mani di giuristi, romanzieri, registi e storici: questa varietà di approcci ci dimostra come in essa si intreccino indissolubilmente l’aspetto romanzesco e quello storiografico. Per un narratore, gli elementi di suggestione sono evidentissimi: l’eccezionale abilità affabulatoria di Pansette, la sua capacità di ingannare un paese intero, l’ambiguità del ruolo di Bertrande, lo scenografico colpo di scena finale che sembra uscito dalle pagine dei Miserabili.
Per lo storico, dall’altra parte, è certamente affascinante cercare la verità in una vicenda che lasciò i contemporanei così confusi e attoniti da danneggiare forse la lucidità delle loro testimonianze. Ma quanto può essere utile un caso così particolare per ricostruire la mentalità e le usanze di un’epoca? A partire da questa domanda si è sviluppata la corrente di ricerca della microstoria, abbracciata da Zemon Davis nel suo saggio (che infatti Einaudi pubblicò nella collana Microstorie diretta da Carlo Ginzburg, uno dei fondatori di questo approccio). L’idea è che i casi straordinari, anche se poco rilevanti dal punto di vista statistico, abbiano la capacità di amplificare certe dinamiche sociali o culturali.
«Proprio una disputa fuori dalla norma talora riesce a svelare motivazioni e valori che altrimenti andrebbero perduti nel crogiolo delle minuzie quotidiane.» [pag. 6]
Tra storiografia e fiction, inoltre, non c’è solo una convergenza di interessi, ma anche uno scambio attivo: se Lewis e Vigne hanno consultato varie fonti per dare una rappresentazione accurata dell’epoca, Zemon Davis non si è sottratta al fascino della dimensione narrativa. Ha scelto di non trattarla come una tentazione da cui fuggire, ma come uno strumento di cui servirsi con accortezza.
«Non mi ero mai resa conto di quanti diversi significati potesse esprimere la frase di Jean de Coras: “Ma per natura le donne sono spesso ingannate dalle malizie degli uomini”, finché non vidi in fase di montaggio Roger Planchon che provava diverse intonazioni per la battuta del giudice. In quel passato immaginario, spezzato in sequenze di pochi secondi, inondato dalla luce dei riflettori, detto, quindi ripetuto, poi ripreso da un’altra angolatura, mi parve di avere a disposizione un vero e proprio laboratorio storiografico, un laboratorio in cui l’esperimento non generava irrefutabili prove, bensì possibilità storiche.» [pag. X]
Dare spazio alle possibilità significa anche immaginare i sentimenti e le conversazioni private dei personaggi, con un approccio apparentemente poco ortodosso per una storica. Il lettore, però, è messo in guardia dai numerosi presumibilmente, forse, può darsi, che sottraggono il testo al campo dell’affabulazione. Le motivazioni e i limiti di questa impostazione, inoltre, sono chiariti dall’autrice nell’Introduzione:
«Quando non trovavo l’uomo o la donna di cui ero in cerca, mi sono rivolta, per quanto possibile, ad altre fonti dello stesso tempo e luogo per scoprire il mondo che essi dovettero conoscere e le reazioni che poterono avere. Se quanto offro è in parte di mia invenzione, è però saldamente ancorato alle voci del passato.» [pag. 6/7]
Se l’approccio storiografico di Zemon Davis è fatto di dubbi, prudenza e autoconsapevolezza, il romanzo di Janet Lewis annulla invece ogni distanza tra il lettore e la storia, immergendoci in una narrazione che scorre vigorosa e spontanea. La moglie di Martin Guerre è un libro che si legge con grande piacere: lo stile trasmette un senso di serenità e limpidezza, senza mai diventare stucchevole. Il paesaggio dei Pirenei, descritto con tratti quasi pittorici, è un personaggio importante quanto i suoi abitanti: le azioni e i pensieri degli uomini e delle donne sono in armonia con la natura, col succedersi delle stagioni, come se facessero parte di un tutto unitario e privo di crepe.
Questa atmosfera cristallina è ancora più interessante in quanto stride col soggetto della storia, che è invece giocato sull’ambiguità e sulla menzogna. Il sospetto dell’impostura, prima vago e poi sempre più lancinante, spingerà Bertrande a denunciare suo marito, distruggendo la vita felice che aveva riconquistato dopo anni di solitudine e dolore. È come se in questo mondo limpido e innocente non ci fosse spazio per il torbido: quando affiora, va espulso come un tumore, anche a costo di lasciare una ferita aperta e sanguinante.
Proprio Bertrande è il personaggio che più si trasforma nel passaggio dal romanzo di Lewis al saggio di Zemon Davis. Entrambe le autrici mettono in luce la sua forza d’animo, ma danno due letture molto diverse del suo ruolo nel processo. Per Lewis, la donna è lacerata tra l’amore per il nuovo marito e quello per la verità: quando le diventa impossibile mentire ancora a se stessa, è lei a chiedere l’aiuto di Pierre per denunciare il falso Martin. Zemon Davis, invece, ipotizza che Bertrande sia stata complice di Pansette: secondo questa interpretazione, la donna capì presto la verità ma mantenne il segreto per anni, avendo trovato nell’impostore un compagno migliore rispetto a Martin. Sottoscrisse la denuncia per evitare uno scontro frontale con lo zio, ma di fronte ai giudici cercò di favorire Pansette con la sua testimonianza. Zemon Davis sottolinea soprattutto il senso pratico di Bertrande: trova in lei «una consapevolezza della propria reputazione di donna, un ostinato spirito di indipendenza, nonché un accorto realismo sui margini di manovra consentiti al suo sesso.» [pag. 30]
Ipotizza che Bertrande cercasse di proteggere un matrimonio finalmente felice, ma anche di assicurare un futuro a sé e ai suoi bambini: se i giudici avessero stabilito che aveva coscientemente accolto estraneo nel suo letto, non sarebbe stata compromessa solo la sua reputazione, ma la sua stessa possibilità di sostentamento. È quindi interessante vedere come uno stesso nucleo di testimonianze abbia dato origine a due interpretazioni così diverse (anche se va detto che Lewis aveva consultato solo fonti secondarie e non aveva letto i resoconti originali del processo).
Infine, non è possibile concludere questa analisi senza un cenno al problema del narratore, che ci riporta al dialogo tra fiction e storiografia. Nel romanzo di Lewis, che pure è scritto in terza persona, il narratore di fatto scompare, assorbito dalla prospettiva di Bertrande. Anche sotto questo aspetto, l’autrice adotta quella stessa limpidezza e innocenza che ritroviamo nelle scelte stilistiche. Questo, ovviamente, è un lusso che Zemon Davis non può permettersi: per il romanziere, giocare con l’inattendibilità del narratore è una scelta tra le tante; per lo storico è un obbligo. Le fonti non possono essere lette con innocenza: a volte chi cerca di ricostruire una qualche realtà dei fatti deve avventurarsi tra parole molto più faziose, omissive e manipolatorie di quelle di Zeno Cosini o di Barney Panofsky. Così Jean de Coras, il giudice che scrisse il primo resoconto del processo, diventa una figura centrale nel libro di Zemon Davis: l’autrice si sofferma soprattutto sulla sua ambigua fascinazione per Pansette, per il suo carisma, la coerenza della sua messinscena e la sua straordinaria abilità di persuasione –fascinazione che, comunque, non gli avrebbe impedito di condannarlo a morte una volta appurata la sua colpevolezza. Indaga sulla storia di Coras, sui suoi rapporti con la famiglia, sulla sua adesione al protestantesimo, perfino sulla sua vita coniugale: tutti temi che, in un modo o nell’altro, ritroviamo anche nel processo contro Pansette. Sulla base di tutti questi elementi, Zemon Davis si chiede cosa abbia spinto un illustre giurista a dedicare tanto tempo e tante pagine a una disputa tra contadini, per quanto bizzarra; e azzarda una risposta che forse ci aiuta a saldare l’individuo all’epoca, la cultura bassa a quella alta.
“Avvocati, funzionari regi, aspiranti cortigiani conoscevano l’arte di foggiare se stessi […]–del modellare cioè il discorso, i modi, i gesti e la conversazione ai fini del successo personale; un’arte ben nota a chiunque nel secolo XVI fosse fa poco asceso a una posizione più elevata. Dove finiva dunque il foggiar se stessi e dove cominciava la menzogna? Molto tempo prima che Montaigne sottoponesse questo interrogativo ai suoi lettori in un saggio ricco di autocritica, l’inventiva di Pansette lo imponeva ai giudici.” [pag. 99]
Dunque la verve affabulatoria di Pansette, che è al centro di questa vicenda, si riverbera su tutti gli attori e gli osservatori: su Bertrande, che forse lo difendeva fingendo di accusarlo; su Coras che, tra le pagine di un serissimo resoconto giuridico, lo trasforma in un personaggio magnetico e prodigioso; su Lewis, che scrivendo un romanzo dichiara implicitamente di mentire, ma ci parla con tale limpidezza da farci dimenticare questa premessa; e su Zemon Davis, che inventa per cercare la verità.
Benedetta Galli
Immagine in evidenza: fotogramma dal film Il ritorno di Martin Guerre, regia di Daniel Vigne, 1983
Una re ensione che ho gradito molto, fonte di domande e stimolante. Grazie.
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