La figlia del ferro, Paola Cereda
(Giulio Perrone Editore, 2022)
Non è difficile, inoltrandosi verso il centro dell’Elba, incontrare piccole pozze d’acqua rossa. Ospitata da conche scavate dagli elbani nei secoli, l’acqua si sporca col ferro e la ruggine si diffonde. Sono laghi molto belli, che hanno un impatto visivo importante, ma che dovrebbero raccontare molto di più di una semplice stranezza naturalistica.
Lo sfruttamento del terreno elbano è uno degli elementi che, pur rimanendo sullo sfondo, si affaccia di continuo nel nuovo romanzo di Paola Cereda, La figlia del ferro (Giulio Perrone Editore). Sarà che l’ambiente forgia i caratteri delle persone, sarà anche perché chi è abituato a ricevere dalla propria terra il sostentamento a quella terra tiene più che a sé, ma i personaggi del romanzo hanno tutti una struttura “elbana”: isolati eppure compatti.
Come tutti i figli dell’isola e del ferro, Umberto aveva la polvere nei polmoni, il metallo tra i capelli e la terra sotto le unghie perché all’Elba c’erano le spiagge, il mare e i castagni eppure, fino alla Seconda Guerra Mondiale, si viveva quasi solo di miniere. (p. 20)
La storia – che prende spunto da fatti realmente accaduti – si muove tra gli avvenimenti che nel biennio 1943-1944 resero, se possibile, ancora più caotica l’Italia. La controffensiva nazista, successiva all’8 settembre, fu dolorosissima e ci viene mostrata attraverso gli occhi di Iole, la poco più che adolescente figlia di Umberto, anarchico ucciso dai fascisti, che nel caos di una guerra ha il coraggio di innamorarsi di Mario. Il 16 settembre, sotto un attacco violentissimo, Mario e Iole incrociano le labbra per la prima volta, ma la difficoltà del momento li costringe a riporre quell’amore in un angolo. Nel corso del bombardamento rimane uccisa Luciana, la sorella cinquenne di Mario. Il contrasto continuo fra elementi distanti (l’amore e la morte; la guerra e la felicità) è una delle cifre stilistiche del romanzo.
Invece Luciana non aspettava più niente: non la fioritura delle ginestre, non la vendemmia di settembre. E se quello era il destino toccato alla figlia, allora il mondo intero meritava di penare per le più piccole conquiste. (p. 68)
L’occupazione è drammatica, ma è altrettanto drammatica l’operazione di liberazione condotta dalle truppe francesi. Nel 1944 l’isola, infatti, diventa obiettivo strategico e simbolico dei francesi (centotrenta anni prima aveva lì ripiegato Napoleone, dopo la tragica campagna di Russia, prima di riconquistare il potere). Lo sbarco è violento e raccontato, questa volta, anche grazie allo sguardo “parziale” di Ibrah, uno dei soldati coloniali francesi che ha dovuto lottare una guerra non sua.
Nel frattempo la famiglia di Iole si è frantumata, divelta dall’interno, disseminata in varie parti dell’isola e d’Italia. Iole, rimasta sola, però, non cade, sembra sempre sul punto di mollare la presa ed è invece in costante tensione col mondo e una realtà barbara, fatta di voci sul suo conto e giudizi sommari.
Raccontare qui lo svolgimento della storia significherebbe anticipare troppi elementi narrativi che, invece, si susseguono in un incastro quasi perfetto. Il romanzo, infatti, scorre insieme allo scorrere della Storia, ne amplifica il carattere angoscioso e incerto pur cercando di far emergere quel substrato umano che tiene incollate le persone alla vita. Questo substrato è il vino sacrificato per fermare la cattiveria dei francesi liberatori, il nascondiglio per il paracadutista inglese in ricognizione sopra l’isola, le botte prese da chi non aveva nulla da dare ai soldati affamati e distrutti da una guerra logorante…
“La fortuna è quando desideri una cosa e quella ti capita. A me mi sono capitate tante cose che non volevo, e ho la sfortuna di avercene memoria”. (p. 102)
L’altro elemento che costituisce il filo rosso dell’intero romanzo sono i crimini di guerra perpetrati sia durante l’occupazione nazista (emblematico il caso dei detenuti fucilati sulla spiaggia di Procchio), sia da parte delle forze alleate (l’affondamento di un piroscafo con oltre trecento civili a bordo che, non essendo stato ridipinto dopo il suo utilizzo militare, venne scambiato per una imbarcazione nemica), sia da parte dei francesi che liberarono l’isola. Le quarantotto ore successive alla liberazione (avvenuta il 17 giugno 1944), infatti, furono segnate dalle violenze dei francesi, dall’adrenalina di quei ragazzi che avevano avuto la fortuna di aggirare la morte. Senza più nulla da perdere si resero protagonisti di veri e propri scempi, compreso l’ultimo, quello che costituisce l’epilogo del romanzo che la figlia del ferro è costretta a subire.
La discussione intorno ai crimini di guerra e a quel che sia “lecito” o “illecito” durante un conflitto è ampia, ma oltre la teoria, prima di ogni analisi a tavolino, ci sono le storie. Le storie, come quella di Iole e degli isolani protagonisti di questo romanzo. Paola Cereda raccontandoci questa vicenda è (correttamente) sempre attenta a non giudicare, a rendere materia incandescente elementi storico-narrativi che invece avrebbero potuto assopirsi, disciogliersi nell’acqua del tempo, come il ferro nelle pozze delle cave abbandonate.
La guerra trasforma un uomo in un soldato, e un soldato in guerra ha un nemico e un alleato. Quando non sa più chi è il nemico e chi è l’alleato, un soldato non è più un soldato: è lui la guerra.
E la guerra finisce quando finisce il soldato. (p. 194)
Grazie a una lingua piana, mai abbondante, misurata e al servizio della storia, La figlia del ferro si configura come un romanzo storico di grandissimo equilibrio e per questo importante. Le immagini non sono mai ricche di aggettivi superflui, i movimenti nello spazio sono sempre illuminati quanto basta per renderli parte della narrazione stessa. A volte sembra di vedere sulla pagina le immagini di un film in bianco e nero del primo dopoguerra, capolavori che avevano la necessità di riattraversare il buio della guerra per mostrare quanta luce ci fosse in quegli anfratti dolorosi. La figlia del ferro è una di quelle luci.
Saverio Mariani
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