Sono Fame, di Natalia Guerrieri
(Pidgin Edizioni, 2022)

Sono fame di Natalia Guerrieri, già autrice per Moscabianca Edizioni del romanzo distopico Non muoiono le api, vincitore del Premio Zeno 2021, segue la storia di Chiara, una ragazza che lavora come rider mentre aspira alla carriera accademica, alle prese con una città molto più grande di lei.
Dopo essersi laureata in Filosofia, Chiara ha lavorato con dedizione a uno stage presso una casa editrice, che poi l’ha buttata via alla stregua di un fazzoletto usato. Ha deciso quindi di trasferirsi in città in cerca di nuove opportunità, portandosi dietro nonostante tutto la vergogna di dover pesare ancora sulla madre per permettersi l’affitto. È una storia purtroppo attualissima, tragicamente comune a gran parte di noi ragazzi intorno ai trent’anni, con le difficoltà che incontriamo nel trasferirci in un’altra casa, costruirci una nostra carriera e magari anche una famiglia.
Chiara è una “rondine”, un termine carino e colorato per definire una modalità di impiego disumana, un classico meccanismo del capitalismo: laccare un prodotto di estetiche divertenti e parole orecchiabili nella speranza di distrarre il potenziale cliente dal suo contenuto. Come intende suggerire infatti il termine “rondini”, i rider dovrebbero volare liberi e allegri per la città sulle loro biciclette, portando vivande da una famiglia felice all’altra, tra parchi e zone verdi rifulgenti di luce, rugiada e magari anche qualche arcobaleno.
La realtà dei fatti è che i lavoratori vengono tempestati di messaggi sui vari ordini in qualsiasi momento della giornata, dall’alba a notte fonda, che si moltiplicano e insistono se non ottengono risposta; le “rondini” devono sfrecciare da una parte all’altra della città, seguendo le indicazioni del loro smartphone mentre pedalano nel sudore e nel traffico, rischiando incidenti per mantenere costante la velocità e alto il loro punteggio, altrimenti non avranno diritto al compenso. Mano a mano che Chiara continua a lavorare come rondine, la città la trasforma e la consuma sempre di più, fino a renderla irriconoscibile.
Il titolo “Sono Fame”, nell’uso del presente indicativo, afferma uno stato che continua perennemente nel tempo: per quanto mangi, consumi e divori, la città continuerà sempre ad avere fame, perché la fame stessa è il suo motore.
Le critiche anticapitaliste da cui partono i presupposti del romanzo traggono spunto dal saggio La società della stanchezza di Byung-Chul Han (Nottetempo, 2012), che denuncia l’assurdità dei ritmi di produttività a cui la nostra società è sottoposta per alimentare e mantenere in vita il sistema capitalista. Similmente, la città di Sono fame, chiamata “la capitale”, ingoia risorse e cannibalizza i propri abitanti in un modo che ricorda il terrificante dio Moloch del film Metropolis di Fritz Lang, nelle cui fauci meccaniche vengono sacrificati centinaia di operai per garantirne il funzionamento.
Cosa sacrifica Chiara per il suo posto nella capitale? La sua libertà, la sua salute fisica e mentale, il suo tempo, il suo futuro – nonostante paradossalmente si sia trasferita proprio per questo – e il suo corpo, visto che via via che consegna pizze, ramen, pollo fritto e sushi a un’insaziabile città dalla fame inestinguibile, lei in maniera opposta si fa sempre più magra e debole.
Provata dalle condizioni disumane del lavoro e sola nella città, Chiara vive in un allarmante stato di vulnerabilità costante: la città è pericolosa in un milione di modi diversi e imprevedibili, come un’idra con teste che si moltiplicano in continuazione. E lei è una bicicletta nel traffico come una barchetta di carta in un mare in tempesta.
«Una macchina mi passa troppo vicina, troppo veloce, scarto sul marciapiede. Il telefono cade per terra, in mezzo alla strada. Salto giù dalla bici e mi lancio a recuperarlo. Le macchine suonano il clacson, la gente mi urla addosso dai finestrini: merda, levati dai coglioni. Avanzo con i palmi aperti davanti a me per fare segno di scusarmi e di volerli calmare ma in realtà è solo per avere l’illusione di proteggermi, di mettere una barriera fra me e loro. Pensò che morirò, che uno di loro rivendicherà il suo diritto di non rallentare e schiaccerà il mio corpo.» (pp. 115-116)
Chiara deve continuamente combattere per la sua sopravvivenza, senza concedersi un attimo di respiro. Descritte con un ritmo serratissimo, nella lettura registriamo una quantità inesauribile di microaggressioni che la Capitale compie su di lei: dalle risposte passivo-aggressive di clienti e ristoratori alle violazioni della sua privacy, dalla violenza verbale delle minacce e degli insulti a quella fisica e psicologica, fino ad arrivare alla violenza sessuale e a sfociare infine in un vero e proprio racconto dell’orrore.
Natalia Guerrieri narra questa violenza raccontando la città in una dimensione corporea, riuscendo a trasmettere così la sensazione della pelle, della carne e del dolore fisico. Utilizza tutto un vocabolario semantico legato quindi al corpo, raccontando di una città fatta di falangi, di tessuti epiteliali, di muscoli, sangue e bile. È una corporeità cruda e disturbante, dall’effetto disgustoso e repulsivo, legata al sovraffollamento delle metropoli, alla claustrofobia dei corpi costretti nei mezzi, negli appartamenti troppo piccoli, nei locali troppo affollati, dove il contatto con gli odori e i corpi degli altri è obbligato dalla mancanza di spazio. «La capitale è un corpo fatto di corpi», recita l’incipit.
Queste immagini forti e non per stomaci deboli che si susseguono nella scrittura, senza tregua o una pausa per riprendere fiato, riescono con poche parole a catturare specifiche emozioni in uno stile che si avvicina al linguaggio della sceneggiatura. Natalia Guerrieri ha infatti studiato Sceneggiatura all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico di Roma.
Ed è sicuramente a Roma che si ispira “Capitale”, la città dove è ambientato il romanzo. Ritroviamo nel testo la Roma caotica e affollata, la claustrofobia del suo traffico e dei suoi ritmi, dei ritardi ingestibili e imprevedibili, la Roma ostile e competitiva del guidatore che ti deve assolutamente superare e quando finalmente ci riesce ti fa il dito medio. Ma Natalia ammette che si è ispirata anche al periodo che ha vissuto in un’altra metropoli, Parigi, notando molte similitudini: l’indifferenza della folla, il disagio del suo quartiere residenziale, dall’affitto altissimo seppur in un quartiere periferico. “Se muoio qui, non mi tira su nessuno”, si ricorda di aver pensato, mentre percorreva con la sua bicicletta quelle strade sporche e scarsamente illuminate.
Con estrema lucidità e attenzione ai dettagli, Natalia Guerrieri scrive una storia che rispecchia quella di milioni di giovani che stanno vivendo le stesse difficoltà di Chiara: lavori sottopagati, senza contratto e senza certezze, con orari proibitivi, senza possibilità di mettere soldi da parte, senza possibilità di mettere insieme piani solidi per il futuro, senza uno spiraglio di luce in fondo al tunnel. Nel corso del romanzo, in Chiara cresce la disillusione verso il suo futuro, la consapevolezza che non basterà stringere i denti e andare avanti per garantirsi il suo posto nel mondo. Una considerazione amara che risuona con la delusione di tanti altri giovani, che ogni giorno continuano a lavorare senza mai vedere realizzata la promessa di uno stipendio sicuro e sono costretti piano piano a ridimensionare, se non abbandonare, i loro sogni.
«Mi chiedo cosa avrei pensato vedendomi ora qui, da fuori, quando ero ai primi anni dell’università, quando credevo che il mondo mi stesse aspettando, quando mi dicevo che qualsiasi posto sarebbe stato meglio di casa.» (p. 236)
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