Il timore di dire l’amore

Temevo dicessi l’amore, Mattia Grigolo
(Terrarossa, 2023)

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«Ofelia vuol sapere da che parte girare» è il primo verso di Ofelia, canzone dei Bachi da pietra, che si conclude con la strofa più volte ripetuta: «Vivere ancora per morire ancora / come bere ancora per fumare ancora / come alzarsi ancora e ricadere sola / riempi il vuoto e svuota». Anche l’Ofelia (o le Ofelia) de Temevo dicessi l’amore di Mattia Grigolo vorrebbe sapere da che parte girare; e, forse, vorrebbe sapere come uscire dall’eterno circolo di riempimento e svuotamento del vuoto.

Il nuovo libro di Grigolo è una raccolta di racconti, o meglio un macrotesto formato da frammenti testuali, scene narrative che si intrecciano l’uno sull’altro in traiettorie talvolta definite (l’uso dei simboli accostato al titolo dei capitoli, che raggruppa cinque nuclei tematici e, volendo, cinque diversi personaggi di nome Ofelia), e talvolta sottili – la comparsa di un animale, una descrizione fisica, una lontana somiglianza tra personaggi e situazioni.

Il primo, palese, trait d’union all’interno del macrotesto è il nome di Ofelia, che potrebbe anche essere la ricorrenza più labile tra i racconti: Ofelia è ragazza adolescente, madre sopravvissuta al figlio, madre che sta per avere un figlio, figlia che ha perso il padre, sorella, amante. Ofelia è sempre colei che dà il movimento alle azioni degli altri personaggi, nonostante il suo alternarsi tra l’essere narrante o narrata.

Il secondo elemento di congiunzione è il vuoto, l’assenza: assenza di spiegazioni, assenza di azioni. La distanza rispetto all’azione cui il lettore deve sottostare, leggendo Temevo dicessi l’amore, può essere sintetizzata da un’altra canzone, Fuoco Fatuo dei Massimo Volume: «Nella tua camera ho trovato una rivista di karate / dentro c’è la sequenza di un uomo / che uccide un toro a mani nude / c’è la carica del toro / il particolare delle corna per terra / spezzate / ma manca la foto del contatto / tra le corna e la mano». Ciò che succede a Ofelia, gli eventi che avvengono e che lasciano tracce nei personaggi, si svolgono sempre fuori scena, e il lettore è chiamato ad assistere al prima o al dopo; talvolta, in una serie di racconti contraddistinta dallo stesso simbolo, si viene messi a conoscenza tanto degli antefatti che delle conseguenze, ma l’azione non è mai esperibile.

Il terzo elemento è presente nel titolo, e non è – per quanto potrebbe esserlo – l’amore, ma piuttosto il temere di dire l’amore. L’amore, inteso come sentimento affettivo in senso lato, è temuto, non è mai nominato, è qualcosa da cui si fugge, è quell’azione a cui, come già riportato, non possiamo assistere: è un’ombra che striscia in tutti i dialoghi, ma che appena appare scompare, sostituito – come succede nel dialogo che dà il titolo alla raccolta –, dalla morte. Un ultimo elemento che i racconti hanno in comune è la presenza di animali, che sono talvolta metafora della vita dei personaggi umani (come nel caso dei pappagalli inseparabili nella serie Ω e dei cavalli per caroselli nella serie ꝏ), altre volte svolgono una funzione simbolica che non viene disvelata, facendosi in questo modo punto di collegamento tra un mondo reale, conosciuto, e un mondo magico, inconoscibile.

Come succedeva ne La raggia, primo romanzo di Grigolo, la struttura narrativa ha un montaggio che rende possibile diversi metodi di lettura. Si può seguire l’ordine lineare del libro, oppure scegliere di seguire prima una serie per poi passare alla successiva. La scelta di intersecare tra loro le diverse linee narrative crea un effetto di straniamento: dell’Ofelia di turno si hanno sempre pochi dettagli, che danno un senso al contempo di continuità e discontinuità tra le varie Ofelia, che potrebbe essere la stessa in tutte le cinque linee narrative e al contempo potrebbe essere un personaggio diverso in ognuno dei quattordici racconti.

Tutti gli elementi che compongono Temevo dicessi l’amore, dall’enigmaticità di Ofelia agli elementi di continuità e discontinuità tra i racconti, fanno sì che il macrotesto risulti una costruzione perfetta, contenente una suspense perpetua che non tende verso nessun esito, un’attesa di risposte che non possono essere ottenute. Questo continuo aprirsi di scenari indecifrabili, di porte aperte sul vuoto, è al contempo l’elemento migliore e peggiore della raccolta: migliore perché stilisticamente ben architettato e capace di suscitare un continuo interesse verso il racconto successivo, e peggiore perché, nel concludere la lettura, ci si accorge che tutta la struttura rimane fine a se stessa, mancando di un senso ultimo che, per quanto nascosto, possa giustificare lo sforzo continuo di perdersi e ritrovarsi tra le pagine.

Enrico Bormida

Immagine in evidenza: John Everett Millais – Ophelia, Tate, London. (immagine di pubblico dominio)

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