Identità, corpi e famiglie difettose

Sangue Cattivo. Anatomia di una punizione, Beatrice Galluzzi
(effequ, 2023)

Sangue cattivo

Nell’opera prima di Beatrice Galluzzi tutto è costruito intorno a un’immagine concreta, che si annuncia già dal titolo e che proseguendo nella lettura si fa sempre più solida: paratesto, immagine di copertina, persino alcune illustrazioni stilizzate che costellano i capitoli non fanno che contribuire a una rappresentazione precisa e carnosa del corpo
 
Nient’affatto un corpo etereo o astratto quindi, non un simbolo né un’allegoria che vuole rimandare ad altro da sé.  
In più, in quanto malato, questo corpo oltre che materico si rivela anche difettoso, cigolante.
Un corpo giovane, dunque una casa dall’architettura tecnicamente efficiente e funzionale, si fa ben presto casa in rovina, man mano che la malattia viene allo scoperto e l’organismo dà i primi segni di cedimento.

Il corpo al centro della storia è quello di Beatrice, voce narrante che condivide con l’autrice lo stesso nome: un escamotage, questo, per ibridare i confini tra l’autobiografia, il memoir, l’autofiction e l’invenzione romanzesca, che gioca con la verità plasmandola e tradendola. 

Beatrice sta per sposare Aldo, giovane uomo che la ama con fare devoto, premuroso e paziente. Ma a parte lui nella sua costellazione di affetti ci sono più che altro stelle spente. Infatti, nel momento in cui la malattia di cui sta per scoprire la natura le invia inquietanti avvisaglie, Beatrice ha da poco visto morire suo padre.  

Per tutta la storia fa riferimento a lui perlopiù come “l’ingegnere”, per rimarcare l’estraneità glaciale con cui ha sempre osservato (e subìto) quell’uomo dagli umori incostanti, capace di sorrisi raggianti ma più spesso iracondo, bestemmiante e vendicativo. 

Attraverso una narrazione che alterna due piani temporali, Beatrice racconta del suo presente e con continui flashback torna alla sua infanzia: terreno cinto da filo spinato a causa dei temporaleschi attacchi di furia del padre e delle parole efferate che scagliava contro lei e sua madre. 

Pur trovando Riccardo — il padre — un personaggio odioso, in chi legge (e nella stessa Beatrice) s’insinua il dubbio che dopotutto lui non fosse che un piccolo uomo, capace di alternare all’odio più barbaro momenti in cui piagnucolava, smascherando la sua fragilità. 
Un personaggio grottesco, un ‘cattivo’ che non merita condanna né perdono.  
Anche da morto, con l’ingombro del suo non esserci più, continua a far percepire il suo peso di urna tracimante, fossile, scheggia confitta dentro i ricordi e dentro l’identità stessa di Beatrice, la quale si convince di aver ereditato da lui tare e maledizioni. 

Da qui la «meticolosa vivisezione dei sensi di colpa» (p. 31) che la protagonista compie, mentre indaga e scopre di che natura è la disfunzione che sta assediando il suo corpo.  
Per raccontarne guasti, malfunzionamenti e inceppi, l’autrice ha mescolato un lessico preciso, di matrice anatomica e biologica, con similitudini bellissime, che virano invece verso un’attitudine lirica e intimista.
Soltanto in qualche occasione questa tendenza sbrodola verso la chiusa pirotecnica ad effetto; per il resto lo stile della Galluzzi è lingua piana, ostentatamente sincera, che cerca nelle belle parole il contrappeso a quello che di marcio va confessando.

Tutta la scrittura sembra tesa verso l’obiettivo di dare forma sulla pagina alla tridimensionalità pulsante e incontrollabile degli organi, al peso della carne, al rumore che fa il suo lacerarsi dentro, il suo incagliarsi e non funzionare più.
Oltre a registrare i cambiamenti che avvengono a livello organico dentro di lei, Beatrice si lascia andare qua e là anche a qualche osservazione ironica e a una cauta speranza nei confronti del futuro incerto di quel corpo che l’ha tradita.

Un bell’esempio di questo stile si ritrova nelle pagine in cui Beatrice racconta di aver ricevuto la diagnosi della malattia, dapprima annunciatale dal dottore in un lessico clinico e asfittico, poi tradotta in modo più accessibile.
Ma il male viene veramente compreso solo quando Beatrice si spiega con queste parole quanto sta accadendo, di corrotto e sbagliato, tra i suoi organi: «Non so scindere il giusto dallo sbagliato, scelgo il marcio, il deterioramento, scelgo le scorie; butto via le cose buone, spreco quello che rimane» (p. 56).  

Dunque è chiaro come il sottotitolo che l’autrice ha scelto per la sua storia sia perfettamente cucito sulla doppia anima del romanzo, che non è solo il racconto del decorso di una malattia nelle sue varie sue fasi. 
È soprattutto l’osservazione ravvicinata, capillare e microscopica di come a tutti quei cambiamenti rovinosi nel corpo corrispondono riemersioni di rimossi, cicatrici e indigeribili rancori, di cui il corpo sembra esser stato da sempre contenitore capiente.

Viviana Veneruso

(immagine in evidenza di Anastasiya Trefelova: https://www.pexels.com/it-it/foto/astratto-scultura-figurina-tessuto-14972575/)

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