“Il cerchio perfetto”: una storia di eterni ritorni

Il cerchio perfetto, Claudia Petrucci
(Sellerio, 2023)

petrucci_copertinaMuoversi tra le pagine de Il cerchio perfetto – secondo romanzo di Claudia Petrucci, vincitrice del Premio Flaiano Giovani con la sua opera d’esordio, L’esercizio (La Nave di Teseo, 2020) – è come abitare la spirale di una conchiglia. Cromature, ombre, riflessi slabbrano i confini tra i corpi e le cose, attorcigliandoli su se stessi, in una struttura perfettamente razionalizzata.

La materia si srotola – e arrotola – lungo due piani temporali distinti che si alternano capitolo dopo capitolo. Il primo percorre a ritroso, dal 1986 al 1985, dall’epilogo tragico al primo incontro, la relazione tra Lidia Castelli, giovane erede di una famiglia dell’alta borghesia milanese e Dario, architetto di vent’anni più vecchio di lei, sposato e padre di due figli, presto tre. Il rapporto tra i due si sviluppa attorno al lavoro di ristrutturazione di una villa in via Saterna, nel centro di Milano, affidato dalla ragazza a Dario.

Il secondo filone narrativo si dispiega cronologicamente in modo lineare e ci porta all’incirca a quarant’anni dopo. La crisi climatica prostra l’Italia: Roma è immersa in una nube tossica che tinge di giallo ogni cosa, Venezia è destinata a sprofondare entro il 2042, Milano è avvolta da una nebbia arancione che trasforma i passanti in fantasmi. Il sole, in Lombardia, potrebbe non fare mai più capolino. In questo scenario apocalittico – tragicamente verosimile – Irene Sartori, ambiziosa curatrice d’aste di dimore storiche, si occupa proprio della vendita della villa di via Saterna, dopo essere stata contattata dall’avvocato Ferrari, preposto alla liquidazione dei beni degli ultimi proprietari dell’immobile, caduti in disgrazia. Sin dai primi giorni di inventario la donna si accorge che nella villa dimora abusivamente Lidia, una studentessa rimasta senza casa come molti altri suoi coetanei: questo incontro inatteso stravolgerà la sua vita.

Irene non è avvezza a indagare le vite degli ex abitanti delle case in vendita: si tratta quasi sempre di storie tristi – e quella di Lidia Castelli non fa eccezione. Per questa ritrosia nei confronti del passato, scopre solo avanti nel racconto (e accidentalmente) l’inquietante omonimia tra la rampolla degli anni Ottanta e la ragazza sradicata degli anni Venti del Duemila. Fino ad allora, al mistero della coincidenza partecipa solo chi legge e può dunque accedere anche all’altra metà del cerchio della narrazione, quella di Lidia e Dario.

Tuttavia, Irene avverte sin da subito che le pareti della villa celano qualcosa di sinistro e ostile. L’assenza della casa dalle carte catastali, l’atipica planimetria circolare, dissimulata all’esterno da una canonica pianta quadrata, la ricercatezza dei materiali: si ha l’impressione di varcare la soglia di uno spazio immerso in una «fredda sacralità» (p. 29). Nella perfetta coincidenza delle misure, frutto della moltiplicazione dello stesso numero, Irene intravede un omaggio a qualcosa, o a qualcuno.

In effetti, Dario ha tentato proprio di erigere un monumento alla volontà di Lidia, musa, committente e amante, soddisfacendo, intanto, la propria sete di perfezione:

«Lidia ha desiderato potersi guardare costruita. Palladio, o meglio Dio, una deviazione spirituale, e inoltre la casa di piacere di Ledoux, le celle distribuite in tre spirali circolari in un monastero di padri trappisti edificato in Belgio nel 1909, le Torri del silenzio del culto zoroastriano, il panopticon di Bentham; il panopticon, l’occhio che sempre guarda…» (p. 63).

Dario è mosso dall’amore, forse, o dall’ambizione megalomane – a tratti pigmalionica – di fronte all’occasione lavorativa che gli permetterà il tanto agognato salto di carriera. L’architetto imprime le simmetrie perfette di Lidia nelle misure della villa.  Specularmente – e questo è un risvolto di particolare interesse –, le forme della casa sembrano incarnarsi nel corpo della ragazza, a suggellare una sorta di identità tra musa-committente e opera d’arte, spinta alle estreme conseguenze. Man mano che i lavori procedono, infatti, il corpo stesso di Lidia sembra reificarsi, divenire materiale di costruzione o demolizione («Lidia si alza in piedi, il corpo le sta crollando di dosso, a ogni movimento un pezzo si stacca e la sua testa galleggia», p. 9).

Ecco che ritrovare una coetanea di Lidia, sua omonima, rifugiata tra le stesse mura, quarant’anni più tardi, è conturbante, tanto più che la ragazza appare e scompare senza spiegazioni e i racconti sul suo passato sono vaghi e cangianti. Circostanze rese ancora più misteriose dal fatto che la somiglianza tra le due Lidia non è solo onomastica ed estetica, ma si riverbera anche in quello che le ragazze rappresentano agli occhi delle due controparti più adulte, Dario e Irene: lo spettro di una giovinezza perduta, da «prendere e rovesciar[e] addosso a sé come fosse acqua» (p. 173). La pianta circolare di via Saterna, punto di intreccio delle due trame narrate, si stratifica allora di significati simbolici: concrezione spaziale dell’eterno ritorno, immagine della circolarità degli affetti, soglia dalla quale affacciarsi sulle acque di un passato irrisolto e taciuto.

Lidia e l’altra Lidia rappresentano anche la proiezione di una giovinezza protesa sul nulla: la prima è condannata ad avere per sempre vent’anni, la seconda è parte di una generazione affacciata a un futuro che è già maceria.

«[P]er quanto la nostra giovinezza ci venga raccontata come una dote irrinunciabile, io sento di aver perso tutto. Lo dico con pace, con serenità, e senza alcun rancore, perché era inevitabile: abbiamo perso tutto» (p. 165).

Il libro di Petrucci strizza quindi l’occhio ad alcuni stilemi del romanzo gotico, del thriller, del giallo – non mancano leggende di fantasmi, ritratti di ragazzine esangui, sepolcri monumentali, colpi di scena da capogiro. In particolare, nel tema della casa che assorbe le vite di chi la abita riecheggiano alcune atmosfere dei romanzi di Shirley Jackson e de Il tarlo di Layla Martínez (La Nuova Frontiera, 2023). Giocando con queste suggestioni, l’autrice dialoga con i problemi di oggi e di domani, dalla crisi climatica e abitativa alla progressiva privatizzazione dei beni storici.

Tutto ciò viene retto da una scrittura raffinata, che muta a seconda del piano temporale. Se, infatti, nei capitoli ambientati negli anni ’80 la prosa si scorcia, le parole si affastellano, vorticano nella spirale del tempo attorcigliato – pur rimanendo, la sintassi, sorvegliata –, nelle pagine rettilinee di Irene e Lidia i periodi si fanno più composti. Ovunque si avverte una tendenza all’andamento ragionativo e alla ricerca della parola più esatta, che illumini il significato e contemporaneamente induca a percepire l’opacità che lo circonda.

Infine, in un romanzo molto preciso anche a livello toponomastico, è curioso rilevare un dato esterno al testo, ma pregnante: via Saterna, a Milano, tra largo la Foppa e via Solferino, non esiste. O meglio, si trova soltanto nelle pagine de Il poema a fumetti (1969) di Dino Buzzati, uno dei primi graphic-novel, adattamento del mito di Orfeo e Euridice: è la via di accesso all’Ade.

Ginevra Portalupi Papa

Foto in evidenza di jplenio da Pixabay: https://pixabay.com/it/photos/scala-a-chiocciola-fasi-scale-3401730/

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