Se mi tornassi questa sera accanto – Carmen Pellegrino
(Giunti)
“Se mi tornassi questa sera accanto
lungo la via dove scende l’ombra
azzurra già che sembra primavera,
per dirti quanto è buio il mondo e come
ai nostri sogni in libertà s’accenda
di speranze di poveri di cielo,
io troverei un pianto da bambino
e gli occhi aperti di sorriso, neri
neri come le rondini del mare.”
Si apre con questa poesia di Alfonso Gatto dal titolo A mio padre il secondo romanzo della “abbandonologa” Carmen Pellegrino, romanzo che dal primo verso del componimento prende il titolo e l’atmosfera tutta. La storia pubblicata pochi mesi fa da Giunti, infatti, è incentrata sul rapporto sfilacciato fra un padre e una figlia, che include quello con la moglie/madre e quello, più in generale, con la famiglia d’origine, in un equilibrio sempre faticoso fra il maschile e il femminile.
La vicenda si sviluppa seguendo due diversi punti di vista: quello di Giosuè, che scrive lettere alla figlia Lulù ormai cresciuta e in parte perduta, perché arrivata lontano e mai tornata indietro, nemmeno con un breve messaggio; e quello di un narratore esterno che si concentra sul passato di questo nucleo familiare, sull’infanzia di Lulù e sul suo progressivo formarsi in quanto donna, in quanto figlia, in quanto essere umano.
In mezzo a queste due voci sta la Storia – quella con l’iniziale maiuscola, che non risparmia né i potenti né gli umili. Ed è così che, fra le case dell’Appennino, serpeggiano il terremoto dell’Irpina, lo scandalo di Tangentopoli, la delusione socialista del 1992, e un continuo sfruttamento del territorio, che fanno da contraltare di una dimensione intima e lirica in cui le tragedie, al contrario rispetto a quanto accade a livello collettivo, dipendono spesso dalla parola giusta al momento sbagliato, da un silenzio troppo lungo, da uno sguardo troppo breve, da un’assenza emotiva anche solo immaginata.
Tali differenti suggestioni e dimensioni si intrecciano fra loro, si alternano nel tempo e nello spazio, permeano il passare degli anni della loro durezza e dolcezza, del loro terreno arido e fertile, dei loro incantesimi tristi e delle scintille di vita che, a sprazzi, ridanno colore a certe case semidimenticate.
Lo stile di Carmen Pellegrino è, difatti, un progressivo incedere nella malinconia e nella profondità, nella leggerezza e nella quotidianità, nell’animo e nel mondo: da ogni scavo emergono pietre, a volte preziose e a volte meno, e capitolo dopo capitolo è impossibile non vederle disporsi a formare un puzzle ben incastonato, in cui realismo e fantasia si scambiano il posto, in cui la verità si trova per caso, passando Di qua dalle mura (titolo della seconda parte del volume) dopo essere stati al di là.
Non si tratta di una verità che sconvolge o che turba, di rivelazioni che capovolgono le proprie convinzioni o che le tengono appoggiate saldamente a terra, bensì di prese di coscienza graduali, di riflessioni a ritroso, di piccoli gesti compiuti con fatica nel presente e in vista del futuro, nel tentativo di rimediare al male del passato – anziché cancellarlo, seppellirlo o addolcirlo. Una fiaba familiare, dunque, dedicata alla ricerca o all’abbandono di un Ignoto Ideale, luogo in cui sopravvivere sopra le macerie dei fallimenti.
Un romanzo sul declino che non si arrende, sull’inquietudine che desidera calmare sé stessa, sull’autenticità che declamiamo pur non vedendola, e sui riscatti che non devono necessariamente farsi eclatanti e splendenti per accadere, dato che in certi casi basta anche solo voler perdonare sé stessi per ritrovarsi sulla giusta strada.
Eva Luna Mascolino
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