Il segreto di Pietramala, Andrea Moro
(La Nave di Teseo, 2018)
Elia Rameau arriva in Corsica quasi per caso. Vive a Parigi ed è un giovane ma affermato linguista, a cui hanno affidato da risolvere l’ultimo tassello di un mosaico non suo, di uno studio che non lo riguarda e che non lo emoziona nemmeno. Tutto quello che deve fare è raggiungere lo sperduto borgo di Pietramala e capire che lingua parlino laggiù. Peccato che, al suo arrivo, le cose non vadano come previsto.
Il protagonista, infatti, si rende conto immediatamente del fatto che il paese è disabitato, e ha buone ragioni di credere che tutti i suoi abitanti si siano allontanati all’improvviso. La ragione gli è oscura e prova dunque a documentarsi meglio sulla storia e sull’idioma del posto cercando nel registro parrocchiale e nelle biblioteche qualunque tipo di testimonianza scritta, non trovandone neppure l’ombra.
“Non potevo immaginare che da quella notte tutta la mia vita sarebbe cambiata, che quella che sembrava una trappola si sarebbe rivelata invece una catapulta per l’anima“, racconta non a caso il personaggio, parlando del momento in cui è pervenuto sul posto.
Questi due situazioni misteriose si rivelano fra loro correlate e spingono Elia a indagare meglio la questione, fra viaggi intercontinentali e passeggiate notturne a Manhattan, trascinato da un lato dall’amore nei confronti di una ragazza e, dall’altro lato, dalla curiosità linguistica che anima il suo mestiere.
Così, i capitoli della prima opera di narrativa di Andrea Moro, contraddistinti tutti da un paio di righe di sintesi del contenuto, trascinano il lettore in un noir insolito, all’insegna della riflessione linguistica e filosofica, in cui la natura umana di ogni tempo emerge in tutte le sue contraddizioni e nei suoi eccessi, il più delle volte pericolosi e subdoli.
Da esperto qual è in materia, peraltro, lo studioso riesce a condividere con il lettore un universo tenuto insieme da una serie di ricchi approfondimenti, che prendono spunto da teorie già accreditate e per sommi capi note anche ai non addetti ai lavori (fra le quali spiccano quelle di Chomsky), per poi arrivare a conclusioni inedite, ai limiti di una distopia scientifica, che si basa su ragionamenti strettamente inerenti al linguaggio e alla sua potenziale manipolazione da parte dell’essere umano: il linguaggio crea, infatti, ma allo stesso tempo rischia di distruggere e di snaturare quanto era preesistente.
Al protagonista, d’altronde, risulta innaturale pensare a un luogo che non abbia una lingua, a un popolo scomparso e che non ha lasciato dietro di sé tombe di bambini. Il suo desiderio di decifrare questi enigmi lo spinge a voler capire cosa tenga insieme i frammenti di un quadro nel quale proprio l’assenza può rivelarsi l’elemento risolutivo, così come lo sviluppo cognitivo dei più piccoli la chiave di ogni segreto.
La vicenda si rivela densa di informazioni e di descrizioni allo stesso tempo, di introspezione e di sguardi attenti al mondo intorno, con uno stile che a tratti ricorda quello di un saggio e che poi senza preavviso si ritrasforma in una “favola” condita da violenze senza scrupoli e amori incondizionati, da piccole rivelazioni e da grandi scoperte.
Il ritmo risulta in certi passaggi eccessivamente rallentato dalle digressioni: la sensazione trasmessa sembra nascondere il bisogno dell’autore di spiegare ogni dettaglio con precisione scientifica, con il rischio tuttavia di fare perdere all’intreccio in sé di fascino e immediatezza. A controbilanciare, per fortuna, si rileva una trama solida e ben strutturata, che in principio sembra caotica e priva di senso e che invece, man mano che ci si addentra nel borgo di Pietramala, si fa limpida e ineluttabile.
Una pubblicazione di qualità, quindi, all’interno della quale c’è spazio per i sentimenti umani e per le più torbide perversioni, per la dimensione pubblica e privata dell’esistenza, per una decifrazione del rompicapo degna di un giallo sapiente e traboccante di originalità. Da gustare con calma e a piccole dosi, ma con vero interesse e piacere.
(Eva Luna Mascolino)
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