E tutto divenne luna, Georgi Gospodinov
(Voland, 2018 – trad. G. Dell’Agata)
Grazie a Voland, Georgi Gospodinov torna nelle librerie italiane con un’opera significativa e sui generis. Si tratta di E tutto divenne luna, una raccolta di 19 racconti poco adatti a un certo “gusto Occidentale”, stando alle critiche che sono state mosse all’autore nel momento in cui la sua fama ha superato i confini nazionali e ha fatto storcere il naso a un paio di colleghi, come fa notare Giuseppe Dell’Agata nella postfazione. In realtà, i suoi sono i racconti perfetti per una società come la nostra: globalizzata e sentimentalista, voyeurista quando si tratta dei popoli che respirano poco più in là del proprio naso e pronta però a prenderne le distanze alla prima occasione.
Sono storie, insomma, che non sembrano appartenerci perché a volte non ne riconosciamo i mestieri, le strade, i nomi propri, le epoche. Eppure, a osservarle da vicino, si rivelano in verità i resoconti di esistenze che conosciamo benissimo, che rispecchiano la nostra sete di infinito, le nostre tristezze all’ora del tramonto, a prescindere dal fatto che si sia nella Bulgaria comunista o nell’Italia del 2018. E così bastano un paio di righe, ogni volta, per colmare un gap culturale e sociale, linguistico e mentale, e ritrovarsi in un’altra idea di narrativa, sconcertante e ammaliante insieme.
In quest’idea qui che l’universale si sia prodigiosamente incarnato. Che se ne vada a prendere appuntamenti davanti a un albergo, o da un barbiere. Che le paure degli uomini se ne stiano tutte compresse in 144 pagine che spesso sono anche meno, perché per articolare una storia di senso compiuto e commesso a Gospodinov bastano a volte tre pagine, a volte 8 minuti e 19 secondi. Poco importa se un mausoleo nel frattempo è stato abbattuto, o se lo è stato un vecchio albero di castagno. Quando uno meno se lo aspetta, peraltro, si trova catapultato in una Lisbona più donna che mai, oppure in una casa di villeggiatura in cui il dialogo fra due vecchi compagni di scuola si fa surreale e drammatico all’ennesima potenza, sfociando in un finale sottilmente ironico che ricorda certa letteratura americana di spessore – cultura nella quale si torna anche in seguito, per via di una prospettiva insolita sui fatti dell’11 settembre e di una ricerca su Google che ha del blasfemo.
Lo stile dell’autore, in tutto ciò, è affascinante e avvolgente, capace di descrivere le scene più inverosimili con candore e quelle più macabre con chirurgico distacco, in un pot-pourri che oscilla fra la tenerezza e lo sgomento per le maniere imprevedibili in cui si aggroviglia l’esistenza di chiunque: dal padre che ha per figlia una bambola, alla coppia che a Natale pensa di farsi una sorpresa partendo l’uno per il Paese dell’altra, e non riuscendo quindi a incontrarsi; da uno scrittore che ritrova l’ispirazione grazie all’aiuto epistolare di una sconosciuta a uno che torna in un cimitero di paese su richiesta di un giornalista fotografico.
Ciascuno dei racconti, quindi, da quello con un uomo “di sabbia” a quello in cui un padre prende commiato dall’universo prima di rinunciare agli anni che gli rimangono da vivere in un futuro per lui sproporzionato, ha dunque in sé il seme di un dramma e di una commedia insieme, che si combinano secondo variabili originali e struggenti, per dare vita a un puzzle di vite apparentemente casuale e scoordinato, e che nonostante ciò sembra avere un fil rouge comune e delicato: la consapevolezza del fatto che gli eventi non sono sotto il nostro controllo e che il mondo potrebbe finire da un momento all’altro, in modi per di più inimmaginabili. Lo sanno bene quel padre che ha perso la sua bambina e quell’altro che non vuole vendere casa, ma che il mobilio lo mette invece tutto in vendita, nella speranza di racimolare i soldi per ristrutturarla mentre intanto dentro si muore di freddo.
Unica pecca di un volume che, come sempre, è in realtà esemplare di un’editoria indipendente di alto prestigio e di un lavoro di traduzione straordinario, consiste forse nella postfazione: scarna e poco sentita, di certo non approfondita come ci si aspetterebbe, né capace di scomporre i vari livelli dell’opera con considerazioni di ampio respiro, che superino la mera sintesi di un paio di titoli e che non liquidino gli altri con troppo poco interesse critico. Tuttavia, in nome della grandezza di una penna come quella di Gospodinov e dell’ottimo lavoro svolto dallo stesso Dell’Agata nel restituire all’italiano una lingua bulgara pulsante e convincente, scorrevole e accattivante, si apprezza comunque senza riserve l’opera nella sua interezza – e, anzi, la si consiglia caldamente a chiunque sia in cerca di vicende dall’estro creativo e di spessore, lontane dai soliti circuiti e allo stesso tempo dai forti echi “familiari”.
Eva Luna Mascolino