La realtà vista attraverso gli occhi di un dio vagabondo

Il dio vagabondo, Fabrizio Dori
(Oblomov Edizioni, 2018)

pop-il-dio-vagabondo.jpgIn un campo di girasoli vive Eustis, un senzatetto a cui basta portare del vino o dell’hashish perché inizi a raccontare storie profetiche, in grado di sconfiggere la tristezza e risolvere problemi di qualunque tipo, che siano d’amore o di soldi. Se da una parte Asterix ha la pozione di Panoramix, Braccio di Ferro gli spinaci e Super Pippo le spagnolette, dall’altra, Eustis ha l’alcol e grazie a esso riesce a risvegliare poteri sovrannaturali; perché, per quanto possa esser stravagante, non è un cialtrone e ha davvero il dono della profezia. Infatti, Eustis non è un uomo come tutti gli altri: in passato era un satiro, ma adesso è costretto in sembianze umane senza più corna né orecchie a punta e con poteri limitati.

La sua “prigionia” ha origine da una punizione di Artemide, che lo ha colto in flagrante mentre inseguiva una ninfa; colpito da una freccia della dea cacciatrice, il satiro cade come morto e si risveglia in un futuro lontano. È smarrito e solo, perché gli dei antichi non ci sono più e sono stati sostituiti dall’unico Dio portato dal cristianesimo. Le divinità pagane non sono morte, ma a Eustis è stato impedito di vederle e così è costretto a vagare alla deriva nei secoli solamente in compagnia dei caduchi mortali.

Tuttavia, allo strambo senzatetto viene concessa la possibilità di rimediare ai propri errori, riacquistando lo status divino originale. La missione è semplice: fare in modo che Pan e Selene si incontrino un’ultima prima del prossimo plenilunio. Così, Eustis intraprende un’avventura senza precedenti, accompagnato dal Professore, un anziano signore appassionato di epica ed estremamente dotto, e da Leandros, il fantasma di un guerriero che non è riuscito ad ottenere una morte onorevole e cerca così di dimostrare il proprio valore.

Un “dio”, un uomo e uno spettro: certamente una compagnia eterogenea, i cui membri sono tutti alla ricerca di qualcosa che desiderano tremendamente. Emblematica in questo senso è la figura del Professore, simbolo  della famelica curiosità umana: l’uomo decide di seguire Eustis nella sua missione per sete di conoscenza, per vedere le divinità e osservare con i propri occhi una realtà diversa che lo affascina in maniera quasi morbosa e pericolosa. Presto si renderà conto di cosa significa cercare di superare i limiti umani, al pari di un Ulisse di dantesca memoria: come riporta la frase in quarta di copertina, “è pericoloso per i mortali immischiarsi nelle faccende degli dei”. Il Professore e Leandros sembrano quasi rappresentare mente e corpo, attraverso un curioso chiasmo: la mente appare personificata da un uomo in carne e ossa, mentre il corpo da uno spettro (o da un’anima).

Il trio si muove così attraverso un mondo in cui la realtà si mescola in maniera inscindibile con la fantasia. Il surreale si nasconde dietro ogni angolo e capita di entrare in un cunicolo fognario in cemento e scoprire che invece è la porta d’accesso verso un regno ipogeo da fiaba. La storia procede così senza sosta e i personaggi sono continuamente sottoposti a prove sempre diverse. Alle volte si ha come l’impressione che sia il Caso a governare lo svolgimento, un destino insindacabile che trascina con sé Eustis e i suoi compagni in circostanze impreviste. Le situazioni in cui si ritrovano i protagonisti sono di matrice classica, ma vengono radicalmente reinterpretate in una salsa moderna e fortemente ironica. 

Lo stesso accade con le divinità, che subiscono una particolare metamorfosi nel contesto attuale. Ecco che si ritrovano Eris e Caronte in seduta dallo psicanalista, Ecate in veste di cartomante, Ares irascibile fanatico delle armi e complottista (senza alcun dubbio il dio dell’Olimpo meglio trasposto e caratterizzato). Traspare così dalle pagine un aperto contrasto tra presente e passato, che non è però una sterile lode ai “bei tempi che furono”. Il mondo odierno risulta essere come incatenato in una filosofia “chiusa”, silenziosa e monotona, priva di un’ottica più ampia come è quella dell’universo mitologico, roboante e plurale. I miti sono fatti per essere raccontati, altrimenti il mondo si immiserisce afferma Eustis, ed ecco che Fabrizio Dori coglie al balzo l’incarico raccontando un contesto fantastico con uno stile veramente azzeccato e un affascinante tripudio di linee e colori.

La tavola viene costruita in maniera sapiente, con una griglia non definita ma generalmente regolare, rotta di tanto in tanto da tagli diagonali, linee ondulate e altre soluzioni visive e narrative che ben si adattano alla vicenda. All’interno di questa piacevole architettura logica si vanno a incastonare disegni strabilianti: il tratto è ondulato e dinamico, le forme cartoonesche e pulsanti di vita. Inoltre, ogni volta che si sfoglia una pagina ci si trova di fronte a una nuova esplosione cromatica, a nuove declinazioni artistiche a confermare la minuziosa varietà del fumetto, senza però che questo risulti essere un’accozzaglia indefinita e priva di una forza propria.

Per la realizzazione de Il dio vagabondo, Dori si dedica a una preciso “saccheggio” della storia dell’arte. Si parte da riferimenti a Vincent Van Gogh (sia per quanto riguardo il disegno, che la storia vera e propria), Paul Gauguin, Paul Cézanne, Claude Monet, poi si sfiorano le opere di Giorgio De Chirico o Roy Lichtenstein, la pittura vascolare greca e infine si sconfina nel territorio del Sol Levante, con richiami all’arte e cultura giapponese. All’interno di questo pentolone eterogeneo e bizzarro, è proprio la sensibilità dell’autore l’elemento legante che rende uniforme il composto: è una gustosa pietanza in cui si apprezzano sia i diversi sapori dei singoli ingredienti, sia il sapore complessivo come voluto dal cuoco, la cui mano si percepisce e fa la differenza.

In conclusione, Fabrizio Dori ha realizzato un’opera veramente pregiata. Attraverso una narrazione preziosa, limpida e caratterizzata da una costante ironia veniamo catapultati in un mondo contemporaneamente reale e magico. L’emozione è quella pura e semplice di un'”avventura fuori porta“, del fascino che si può provare pensando a film come Moonrise Kingdom.

Il dio vagabondo è una grande riflessione sul potere della fantasia e dell’immaginazione, perché mostra come sia ancora possibile che nella realtà concreta ci siano divinità nascoste dietro l’angolo, o che esista la magia in una qualche veste ignota. Il fumetto è cangiante ed estremamente vario, ma lo stile dell’autore non viene eclissato dal citazionismo artistico, anzi, ne trae una forza espressiva capace di richiamare in maniera magnetica lo sguardo, mostrando a tutti gli effetti come il fumetto sia un’arte composita in cui la lettura e la visione di una pagina siano due forze parimenti essenziali.

Francesco Biagioli

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