Max Fox. O le relazioni pericolose, Sergio Luzzatto
(Einaudi, 2019)
L’archivio del mondo. Quando Napoleone confiscò la storia, Maria Pia Donato
(Laterza, 2019)
Il modo in cui ordiniamo il mondo tradisce ciò che siamo: un tentativo di compendio alla corrente archeologica che ha investito l’indagine filosofica del secondo Novecento. Abbandonate le spoglie di un pensiero capace di sopportare con la sola forza del proprio essere-nel-mondo (Heidegger) o della propria coscienza (Sartre e l’esistenzialismo francese) tutto il carico d’angoscia cui il fatto dell’esistenza costringe, il campo di produzione del sapere subisce un declivio dalle cittadelle interiori agli spazi tra le cui mura gli individui sono ridotti al silenzio dalle insegne all’ingresso: “si prega di non disturbare”. Esercizi di potere delle biblioteche. Distese di volumi si ergono verso l’alto, tutto quanto gli uomini sono stati capaci di sistemare si può ritrovarlo tra qualche pagina, scorrendo il dito sull’indice di un documento.
«Il sapere nasce dalle enciclopedie», dice Giorgio Manganelli in un articolo della raccolta Il rumore sottile della prosa, da quell’accumulazione di informazioni il cui intreccio forma il tessuto (textus, il testo) della vita. Una celebre citazione di Notre-Dame de Paris di Victor Hugo, permette di precisare l’opera di occultamento che la carta ha compiuto sull’oggetto (il sasso, la pietra delle cattedrali): «questo», afferma l’arcidiacono Claude Frollo tenendo fra le mani un documento, «ucciderà quello»: indica una cattedrale più lontano.
Provando un’interpretazione strutturale si potrebbe indagare l’analogia tra le due unità discorsive, osservata nel diramarsi dell’estetica di connotazioni valoriali. Se dalla cattedrale di Notre-Dame, quel «maestoso e sublime edificio», promanavano le luci della santità e della confessione, dal documento non potrà che tuonare una lacerazione del tempio, per utilizzare una metafora biblica.
Ciò che viene dal libro, non è più l’accatastarsi monumentale del cammino verso il logos, le tribolazioni e, letteralmente, le geremiadi di popoli in attesa di un tempo che contempli la Verità, bensì l’insidioso dispositivo dello sguardo. L’architettura – da Hugo definita «il gran libro dell’umanità» – non crolla, ne è abbattuta nelle fondamenta: più semplicemente, a causa di quell’invenzione diabolica che ha nome di stampa, si aliena delle potenzialità etiche. Hugo non abbandonerà l’analogia per le pagine successive, fin troppo compiaciuto dal gusto di far case con gli incunaboli e letteratura dagli altari: quei solidi manoscritti di faticosa scompaginazione dicono l’interdizione e la liceità perché, da buoni ricettacoli, la contengono, ne sono il campo d’esistenza.
«Nel quindicesimo secolo tutto muta», l’architettura è detronizzata a favore di una più inedita e sordida rivoluzione: il libro a stampa. «Un libro è subito fatto, costa così poco, e può andare tanto lontano!», persevera l’autore. Eppure l’architettura non viene erosa del tutto, poiché nulla declina sul serio, piuttosto trasferisce in eredità alcune “strutture elementari”, per quanto sbiadite e irriconoscibili, ad analoghe unità cronologiche. Il monumento, prima svilito, si rinvigorisce nella custodia del proprio avversario, ne prende in cura la crescita dalla vulnerabilità degli agenti patogeni.
Il libro, si è detto, è contagiato da connotazioni che gli pre-esistono, possiede in potenza il carattere magnetico di attrarre a sé tutto quanto il mondo esibisce nella forma del reale. Ma il mondo, rivela un capitolo di “Auto da fè” – il romanzo attraverso cui Elias Canetti esplica il vibrare della relazione tra intellettuali e masse, è spesso “senza testa” – ovvero: irriducibile al solo farsi letterario. Non basterà il prestigio che si accorda alle forme retoriche, per quanto si desidererà citare “il libro della natura”, riversando il reale nel documento, ponendolo in infusione di modo che si liberi del gravame fenomenico per librarsi nel pulviscolo delle parole, l’anfora non potrà che traboccare. Si potrebbe azzardare così, con un po’ di cattiva mitologia, l’origine della biblioteca, l’architettura della vita.
È l’avvento della prosa del mondo, saccheggiando l’allusione all’Estetica di Hegel: l’indagine filosofia si trasfigura in teoria della letteratura; il romanzo sostituisce l’antropologia, la storiografia destituisce la storia. Libro della natura, scrive Galileo Galilei ne Il Saggiatore, dunque rincara: «è scritto in termini matematici». Che tutto si tenga non è mai verosimile a meno di non essere particolarmente indulgenti con le proprie teorie, né si può fare di una citazione la feritoia alla coltre della storia, è tuttavia possibile considerare come in Galilei il sapere nuovo, quello del libro, riveli il contenuto di classificazione del mondo fuori di esso, nello stile del sistema scientifico: è nel governo della relazione tra due elementi per cui la copula dovrebbe far da ponte (mondo-e-libro) che si consuma la teoria.
L’accumulazione del sapere è allora investita di una preziosità altrimenti inedita: Hobbes e Spinoza brandiscono la filologia biblica contro i tumulti civili, il Libro per eccellenza dice dell’origine di tutti gli altri, lo spoglio e la presentazione dell’esempio sono trattati da parabola dell’autorità. Chi possiede l’archivio possiede allora la storia del mondo. È per questa ragione che Michel Foucault, di cui sono più spesso citate le opere che il metodo, propone nel 1969 una Archeologia del sapere. Archè, principio, origine; logos, parola, discorso (lo spettro semantico è molto più vasto, soltanto in questa pluralità che ci si può servire del termine): quello foucaultiano risulta a tutti gli effetti un tentativo di articolare l’origine fuori dalla storiografia, di dissestare l’ordine del discorso mescolando non solo le unità discorsive ma anche le griglie di intervento. Dove la storia della giurisdizione traghetterebbe, ad esempio, il lettore verso un certo “autismo” della disciplina, un’altra storia, come quella psichiatria, interviene, di fatto innestandosi in essa e dando luogo invece che a una simulazione dell’impero coloniale a un bizzarro animale mitologico. L’animale plurale dell’archivio. Da cui il tentativo di Umberto Eco, sistemare in qualche modo discipline differenti costringendole al campo di una teoria dell’informazione: i codici si mescolano per il fatto di appartenere a quel recipiente piuttosto ospitale che ha definizione di “semiotica”.
Un video disponibile su YouTube presenta un uomo che in giacca grigia e camicia chiara si professa Direttore della Biblioteca Oratoriana dei Girolamini di Napoli; chi si diletti nell’arte di compulsare i commenti riconoscerebbe verso una figura così eminente un livore che ha dell’immotivato: il più cortese gli augura progetti d’ergastolo. Marino Massimo de Caro, l’oggetto di tanta ostilità, figura insieme ambigua e plurale, è colpevole del saccheggio di almeno quattromila volumi dalla Biblioteca, nonché di altri furti e contraffazioni dolose di incunaboli pregiati. Una seconda figura, più celebre: dal 1809 Napoleone Bonaparte, nel disegno di conquista dell’Europa, inaugurò insieme all’archivista Pierre Daunou un’attività di sistematica appropriazione degli archivi al fine di custodire quelle schegge di mondo in uno spazio univoco, l’archivio per eccellenza. L’individuo cosmico-storico desiderava posare le pietre della fine della storia.
Le due narrazioni, distinte nel territorio dell’apparenza come in quello della verosimiglianza cronologica, si ritrovano costrette alla condivisione di alcune direttrici comuni. La vicenda del saccheggiatore dei Girolamini è il soggetto dell’indagine operata dallo storico Sergio Luzzatto nel volume Max Fox. O le relazioni pericolose. A dispetto di uno stile linguistico a volte troppo annodato e più preoccupato di un suffragio alle condanne (mestiere di giudici, invece che di scrittori), l’autore presenta la biografia di un figlio comunista, dunque collaboratore di Massimo D’Alema e Marcello dell’Utri, ma soprattutto: bibliofilo e collezionista. Speculatore, certo, ed è quanto annienta qualsiasi proposito d’eroismo (la storia di un uomo che tutti quei libri li ruba soltanto per possederli sarebbe certo stata più edificante), purtuttavia cosciente delle diramazioni di potere che promanano dal possesso individuale degli archivi.
Quei libri, che De Caro possiede in qualità di Direttore, gli consentono la messa in opera di una narrazione efficace di se stesso. «Forse sono più importante della macchietta che […] volete descrivere», confida a proposito di alcune interferenze in politica internazionale, “più importante” di quanto l’opera possa registrare. Su alcuni saperi il libro deve tacere per disinnescarne le ambizioni più insidiose verso l’origine. Una storia “da romanzo”, afferma Luzzatto in più di un capitolo; “da film”, aggiunge, e lui, l’autore, desidera comportarsi da gran biografo, da Emmanuel Carrère. Restituire un’esistenza sospendendo il giudizio: è a questo punto che il vizio storiografico interviene per interdire l’anarchia (an-archè, priva d’origine) del romanzo.
Lo storico-archeologo, al cospetto di una conoscenza mancata, di un vuoto nella fonte, si arresta. A quella sordida confessione di grandezza, Luzzatto risponde con un punto fermo, uno spazio di separazione e l’esordio della narrazione più solida delle indagini su De Caro. Quanto più il segreto è mantenuto, tanto più il biografo ambisce alla cronaca, la più limpida e insignificante delle forme letterarie.
Nella mancata possibilità del governo dei saperi, si arresta allo stesso modo il proposito di Napoleone, oggetto d’indagine nel volume L’archivio del mondo per firma di Maria Pia Donato. I «Grandi Archivi della Parigi napoleonica furono l’invenzione simbolica di un impero in cerca di radici», registra l’autrice: nessuna natura, neppure tratteggiata con l’autorevolezza della mitologia, potrà sostituire una storia di produzione domestica.
La beffa è segnalata nei capitoli conclusivi dell’opera: «a metà Ottocento, Jules Michelet ormai storico affermato, capo della sezione storica degli archivi nazionali […] riesumò le schede fatte compilare da Daunau […] Eppure, la storia religiosa di Michelet non era più la storia ecclesiastica di Daunou, la sua histoire de moeurs [storia dei costuni] non era più la storia delle istituzioni dei Lumi». Storia, classificazione del sapere, etica: unità di chissà quante altre che si incontrano come per accidente in una “griglia di significazione” che ha per campo l’archivio.
Una terza direttrice consente di leggere i due testi quali espressione della medesima nevrosi libresca: la figura di Galileo. È una seconda tiratura della prima edizione de Il Saggiatore datata 1623 il volume da collezione che De Caro custodisce nella propria biblioteca personale, dunque ceduto e riacquistato; una copia del trattato Sidereus Nuncius è invece oggetto del gioco letterario della contraffazione, così descritto da Luzzatto: «De Caro […] aveva immaginato di simulare che l’antico possessore di quella copia […] si fosse divertito a riempire le carte 8,9, 10 […] con disegni suoi», salvo poi azzardare un’invenzione migliore: vantare in quei disegni l’autografo di Galileo. Dalla riproduzione all’opera d’arte.
La plausibilità del racconto dice l’autenticità del testo, una storia “che regga” è la rassicurazione per il collezionista più cauto. A volte la realtà simula un racconto di Borges perché si possa dire di lei “borgesiana”: la copia contraffatta diviene oggetto di uno studio critico accolto come una rivoluzione nella filologia di Galilei. Al progetto di pubblicazione del processo inquisitorio si dedicava invece il bibliotecario di Napoleone, Antoine-Alexandre Barbier. «Il documento si rivelò un po’ deludente», scrive Donato, «e inadatto per il pubblico francese […] certo non avvezzo allo stile del tribunale». È allora un conflitto tra stili, a fare da “struttura assente”: quello degli inquisitori, ruvido e aspro, e quello della natura, scritto in caratteri matematici. Inarchiviabili se non nel campo dell’archivio.
Antonio Iannone