Il titolo Solaris non sarà certo nuovo ai cultori della fantascienza né tanto meno ai cinefili: i primi conosceranno questo romanzo di Stanisław Lem, pubblicato nel 1961, come uno dei classici del genere; i secondi avranno probabilmente visto la trasposizione di Tarkovskij del 1972. Io, in verità, l’ho conosciuto in procinto di partire per Cracovia, la città di Lem, ma questa è un’altra storia… importa che ho scoperto un romanzo definito non a torto tra i più belli, intelligenti e inquietanti del Novecento[1], nel quale l’ambientazione fantascientifica, innervata da reminiscenze di mitologia greca, diventa lo scenario perfetto per indagare filosoficamente e psicologicamente un oggetto ancor più complesso, inafferrabile e affascinante dell’universo stesso: l’essere umano – con la sua riserva di limiti.
IL SOSPETTO COME LEITMOTIV DELLA LETTERATURA MITTELEUROPEA
Prima ancora di essere un solarista e un cosmonauta, Chris Kelvin è uno psicologo. Il romanzo si apre con il suo arrivo alla stazione spaziale di Solaris. Ad accoglierlo è Snaut, suo collega, con un atteggiamento stranissimo: è evasivo, è diffidente, sembra nascondere qualcosa e al tempo stesso sembra credere che Kelvin nascondi qualcosa, o che addirittura quello dinnanzi a sé sia un simulacro del vero Kelvin. Snaut sembra impazzito, delle sorti del suo collega Gibarian si fa mistero e per la Stazione pare vaghino figure dalle sembianze umane ma tutt’altro che umane.
Lem è prodigioso nel rendere il lettore partecipe dello straniamento di un uomo che si trovi a una distanza siderale dal suo pianeta, piombato in una atmosfera assurda e inospitale. «Avvertivo qualcosa di sbagliato, qualcosa che non quadrava con l’insieme» (p. 49)[2] ammette Kelvin. In particolare, tutto è permeato da una sensazione asfissiante e generale di sospetto, dalla percezione di essere prigionieri di una realtà trasfigurata, dalla convinzione che il peggio possa capitare da un momento all’altro.
Si tratta di un leitmotiv tipico della letteratura mitteleuropea, che vede in Kafka il più emblematico esponente: penso a K. nel Castello e all’atteggiamento di sospetto che tutti gli abitanti del villaggio gli rivolgono, alla sensazione che consegue in lui di essere un corpo estraneo; penso anche a Joseph K. nel Processo, risucchiato nelle galere di un incubo del quale non riesce a concepire le cause, i responsabili, ancor più una via di fuga; penso al medesimo incubo in cui si trova imprigionato Gregor Samsa nella Metamorfosi, un incubo ancor più abissale e svincolato dalla realtà, il cui baricentro è interno all’individuo che esperisce l’incubo, e forse è egli stesso – la sua coscienza, la sua percezione – la cagione di quell’incubo.
Allo stesso modo partecipa di questo leitmotiv l’opera di un altro autore polacco come Witold Gombrowicz: in Cosmo, romanzo tra i più significativi della sua produzione, il protagonista alloggia a pensione in una casa di campagna nella quale si verificano eventi insoliti e particolari, che sembrano segni metalinguistici di un unico messaggio. Ma questi eventi, queste tracce che pare al protagonista di individuare, sono davvero segnali lasciati da qualcuno all’interno di un “gioco-comunicazione” occulto? E se davvero una mano ha lasciato quelle tracce, a chi appartiene? Chi degli abitanti della casa sta fingendo? Chi sta “giocando”? E perché? Quale segreto nascondono alcuni o ciascuno di loro? O forse è egli stesso a interpretare e caricare di significato degli accadimenti e dei segni del tutto casuali? O forse è egli stesso, inconsapevolmente, quasi follemente, a inviarsi quei messaggi e ad aver escogitato quel “gioco-comunicazione” di cui lui e nessun altro è l’unico protagonista?
Tutto questo, in forme diverse nella forma ma fondamentalmente simili nell’essenza, viene riproposto in Solaris, contestualizzato, nelle medesime implicazioni metafisiche di una realtà quale oggetto di comprensione inafferrabile, all’interno di un originale scenario extraterrestre. Come Snaut prima e Sartorius poi si dimostrano diffidenti con Kelvin e a sua volta gli dicono di non fidarsi di nessun altro (malgrado sul pianeta non ci siano che loro tre), anche lui non riesce a fidarsi di loro, tanto meno di se stesso. Qui si arriva esattamente a un primo nodo centrale dell’opera di Lem: Kelvin arriva a sospettare della sua psiche, del modo in cui percepisce la realtà: ciò che gli sta capitando è vero o è un’allucinazione? Lui è davvero se stesso, o un simulacro di se stesso come i due colleghi sospettano? La psiche umana, per Lem – il quale, da medico di formazione, vi ha dedicato studi scientifici – è al contempo la parte fondante dell’uomo e insieme oggetto estraneo, sconosciuto all’uomo stesso, tale per cui non possiamo avere mai la certezza di conoscere noi stessi, di poterci fidare delle nostre percezioni.
Nell’epoca della corsa allo spazio, della sfida tra il blocco sovietico e quello americano per la conquista dell’universo, Lem si accorge di una certa contraddizione: «L’uomo era andato incontro ad altri mondi e altre civiltà senza conoscere fino in fondo i propri anfratti, i propri vicoli ciechi, le proprie voragini e le proprie nere porte sbarrate» (p. 232). Lem percepisce, di contro all’estremo progresso tecnologico e scientifico dei suoi anni, e proprio nella luce proiettata da questo, l’ineludibile limitatezza della conoscenza umana, e al tempo stesso la limitatezza dell’uomo come specie, laddove il dominio dello spazio era legato a filo diretto con un antropocentrismo sempre più elefantiaco.
Come ha notato Francesco Cataluccio[3], esperto conoscitore di letteratura polacca, la fantascienza per Lem è uno strumento messo a disposizione dalla letteratura per evidenziare tale limite. Proprio questa concezione del genere rende la fantascienza di Lem così particolare. Per questo egli non vedeva di buon occhio gli autori americani, “ritenuti trash e ignoranti”, interessati solo agli effetti speciali di una fantascienza spettacolarizzata[4]. Tra tutti, aveva stima soltanto per Philip K. Dick, il quale, pare in preda a un delirio paranoico, ebbe a denunciare Lem all’FBI nel 1974 con l’accusa di essere a capo di una congiura comunista[5].

L’OCEANO PENSANTE: CREATURA DIABOLICA O DIVINITÀ BENEVOLA
A centro del romanzo c’è la caratteristica fondamentale del pianeta: un Oceano che non è mera massa d’acqua, ma organismo cosciente e sviluppato, unico vero abitante di Solaris. L’Oceano di Solaris è il motivo che rende il pianeta così affascinante per gli studiosi: in esso le regole della fisica vengono ribaltate. Le sue particolarità vengono descritte da Lem con una dovizia di dettagli scientifici e con il ricorso a una borgesiana biblioteca fittizia di citazioni e riferimenti.
L’Oceano è il personaggio antagonista del romanzo: lo scopre subito Kelvin, che, a poche ore dal suo arrivo sul pianeta, si ritrova davanti Harey, sua moglie, morta suicida dieci anni prima a seguito di un litigio tra i due. Sul momento è convinto che stia solo sognando (ancora il dubbio tra realtà e fantasia, tra verità e illusione) ma presto, malgrado la persona dinnanzi a sé sia fatta di carne ed ossa, parli come Harey, abbia gli stessi vezzi e gli identici atteggiamenti di Harey e sia identica nel volto e nella voce a lei, Kelvin deve ammettere d’essere sveglio.
Con prudenza resta nella parte, senza indisporre la ragazza, e le parla come se fossero ancora insieme, un attimo prima di quel litigio, un attimo prima della sua morte. Quando riesce a liberarsi per poche ore di lei, la quale non può mai lasciarlo solo, Kelvin escogita degli espedienti per verificare se lui sia ancora sano di mente: arriva a capire che in quella situazione la pazzia è la sua unica salvezza, l’unico rifugio sicuro, ma le prove gli rivelano che è sano. E i suoi due colleghi gli confermano che anche loro hanno degli ospiti. La loro convinzione è che siano creati proprio da quel misterioso Oceano.
La prima domanda che Kelvin si pone è: com’è possibile? Insieme a Snaut arriva a comprendere che l’Oceano riesce a penetrare nel loro cervello e a dar forma (neutrinica) al ricordo più ossessionante. Harey è una copia reale dell’Harey reale, materializzata attraverso l’immagine che Kelvin conserva di lei nella sua memoria.
La seconda è: perché? Perché l’Oceano sta facendo questo a tutti loro? Con Snaut s’interrogano al riguardo: l’Oceano è diabolico e li tormenta con quelle presenze per prostrarli? O invece vuol loro fare un dono di quel che più di tutto desiderano, senza la possibilità di concepirne tutte le reali conseguenze?
Il discorso intorno all’Oceano finisce per diventare anche un discorso teologico e teleologico intorno all’uomo e al dio.
Kelvin è l’emblema dell’uomo del suo tempo, che sa viaggiare nell’universo e sa rispondere ai come?, ma che non sa spiegarsi i perché?.
La fede nelle scienze da una parte, tipica di un Occidente in progresso impegnato a rispondere ai come? delle cose, e l’ateismo promulgato dal Regime Sovietico, tipico di un Oriente comunista che promuoveva una fede cieca unicamente nello Stato, e che insieme contendeva all’Occidente il primato nello sviluppo tecnologico e nelle scoperte scientifiche, portano l’uomo di quei tempi, che fosse a Est o Ovest del mondo, a percepire un vuoto di senso, che in fin dei conti è proprio l’incapacità di rispondere ai perché?. Domanda a cui né la fede nella scienza né la fede nello Stato sapevano trovare adeguata risposta. Domanda di cui la religione s’era fatta carico da sempre.
Kelvin, dinnanzi al dilemma dell’Oceano, è probabilmente l’uomo dinnanzi ai dilemmi della vita, che non riesce a fare a meno delle risposte di un essere superiore. E che cerca un nuovo dio, magari questa volta con caratteristiche diverse dal solito, più tollerabili.

ORFEO ED EURIDICE NELLO SPAZIO COSMICO
Se al principio Kelvin vuole liberarsi di Harey, perché angoscianti sono la sua presenza e il tormento inconfessato di sentirsi responsabile della sua morte, presto cede al sentimento e al desiderio di poter riprendere con quella nuova Harey ciò che con l’altra Harey era stato interrotto. Il suo è un bisogno d’amare, o piuttosto il bisogno di cancellare la sua colpa? Nel plot dell’amante che riesce a ricongiungersi con l’amata defunta, già Oreste del Buono aveva evidenziato una trasposizione nell’inedito scenario cosmico del mito di Orfeo ed Euridice. La lotta tra l’amore e la morte viene qui ribaltata: dal mondo sotterraneo degli inferi a quello celeste degli spazi siderali.
Com’è stato ulteriormente notato[6], l’opera di Lem riflette la struttura classica del racconto mitologico. Il viaggio interstellare di Kelvin mi pare sia decisamente più simile a certi episodi narrati dalla letteratura greca che ad altre opere di fantascienza: non è forse paragonabile a quello raccontato da Luciano oltre le Colonne d’Ercole, emblema dell’ignoto? Non è la versione che forniamo noi moderni dell’erranza per mare propria dell’Odissea o delle Argonautiche, nella quale la meta è metafora della conoscenza? Qui però la situazione è ribaltata: l’esplorazione di Solaris fornirà meno risposte della quantità di interrogativi che susciterà. Ancora, dunque, ritroviamo l’uomo al cospetto della sua limitatezza, schiavo, prima ancora che dell’Oceano, dei suoi sentimenti, come Orfeo che non s’arrende alla morte di Euridice, come Odisseo che non perde mai di vista Itaca nonostante la sua sete di conoscenza.
POSTILLA CONCLUSIVA
Solaris è un romanzo che potrà affascinare anche chi, come me, non frequenta spesso o affatto la fantascienza. Da parte mia ho provato esprimere le mie interpretazioni e ad includerne di altrui. Ho provato a raccontare la vastità di un’opera che molto lascia su cui ragionare e riflettere. L’ho fatto, io credo, senza superare mai la soglia dell’indicibile e dello spoiler: se ho detto molto, assicuro che ben di più è quel che ho accuratamente trascurato, proprio per non compromettere il piacere, l’interesse e la curiosità in chi vorrà leggerlo.
Giuseppe Rizzi
[1] F. M. Cataluccio, L’oceano dei neutrini pensanti, postfazione a Solaris, Sellerio, 2013, pp. 317
[2] Le citazioni sono tratte dall’edizione del 2013 edita da Sellerio, nella traduzione dal polacco di Vera Verdiani
[3] F. M. Cataluccio, L’oceano dei neutrini pensanti, op. cit. p. 308
[4] Ibid. p. 306
[5] Ivi
[6] Silvana Natoli, Il futuro è presente, il Manifesto, 25/04/2009
Ottima recensione! Penso che leggerò presto questo romanzo
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Mi fa molto piacere!
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Una pagina di critica letteraria su questo romanzo: veramente ben fatta e illuminante. Si capisce perché Lem apprezzasse Dick: Al pari di Wells per tutti e tre gli autori il genere fantascientifico è solo l’ambientazione straniante proiettata al futuro per descrivere criticamente il (loro) presente (si pensi, per Wells, a “TheTime Machine” del 1895 se non ricordo male) forse con un taglio leggermente diverso (oltre a critiche, poneva situazioni in cui mal si applicava la morale corrente, anche individuale) Joseph Conrad faceva la stessa cosa utilizzando però ambienti lontani, inaccessibili alla maggior parte dei suoi contemporanei britannici: si pensi a “Cuore di Tenebra”, a “Nostromo”, “Il negro del Narciso”. Per quanto riguarda il tema del falso, del sostituito, nel non vero era un teme direi quasi ricorrente in Dick: a parte “Blade Runner” (il cui vero titolo è “Do Androids Dream of Electric Sheep?”) un suo romanzo è “I simulacri” (e mi pare anche un altro romanzo dal titolo né più né meno che “La città sostituita”): significativo no? Era un tema che evidentemente, al di là delle implicazioni filosofico-morali piaceva e colpiva il pubblico: vi ricordate quell'”Invasione degli ultracorpi” di Jack Finney del ’55 (il film è dell’anno dopo)?, Spero di non aver fatto errori, visto che questo commento l’ho scritto “a memoria”. Bravo (come sempre) al Rizzi: preciso, corretto e chiaro!
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Ciao Stefano, ti ringrazio davvero molto dei complimenti e ancor più per aver condiviso con noi la tua analisi. A presto!
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