Le tre anime di Berlino: la pietra, il fumo e la luce

Berlin vol. 1-3, Jason Lutes
(Coconino Press – Fandango, 2019 – trad. E. Fattoretto & V. Stivè)

berlin-3-jason-lutes-670x946Se ai più dovesse risultare un’esagerazione l’espressione “tutte le strade portano a Berlino” – e avrebbero anche una certa ragione dalla loro parte –, non dovrebbe, invece, apparire loro assurda la frase “molte strade portano a Berlino”. È un’ovvietà accomodante, vaga e approssimativa,  ma è anche vero che la capitale tedesca ha avuto nel secolo scorso un ruolo cardine e un’importanza unica. Crocevia di destini e di eventi, durante il XX secolo la città è stata infatti un teatro storico sconcertante: dall’esito sfavorevole della Grande Guerra, fino al crollo del Muro di Berlino, passando per gli anni della Repubblica di Weimar, dell’avvento del nazionalsocialismo, della seconda guerra mondiale, della guerra fredda. Una realtà molteplice, frastagliata, divisa, lacerata, luogo di morte e rinascita. L’autore statunitense Jason Lutes ha deciso di parlare proprio di questa eterogeneità, di questa complessità, dando così alle stampe la trilogia di Berlin. In particolare, nei tre volumi che compongono la serie (che raccolgono i 22 albi complessivi) l’attenzione è concentrata su un piccolo frammento di questa storia: gli anni finali della Repubblica di Weimar,  dal 1928 al 1933.

Con un’attitudine scientifica, l’autore decide di considerare solamente una porzione dell’universo: il sistema oggetto dell’indagine di Lutes è Berlino a cavallo tra la fine degli anni ’20 e l’inizio degli anni ’30. Non solo, Lutes stringe ancora di più il campo: in ciascun volume della trilogia viene esaminata sempre la stessa città, ma in tre momenti distinti, che appaiono tra loro estremamente lontani nonostante siano distanti appena qualche mese. La città cambia senza sosta e si evolve di pagina in pagina, di albo in albo, di fumetto in fumetto. la Berlino raccontata nel primo episodio, La città delle pietre, non è la stessa Berlino raccontata nel secondo, La città di fumo, a sua volta diversa anche da quella del terzo, La città della luce.

Tre diversi capitoli che presentano svariati elementi di diversità, ad esempio nella gestione della storia, nei tempi del racconto, nel ritmo, nell’evoluzione dei personaggi, complice anche la durata della realizzazione dell’opera. Lutes ha infatti impiegato più di vent’anni per completare l’impresa, dal 1996 al 2018. Il giovane autore statunitense è stato risucchiato nella realizzazione di Berlin quando aveva da poco completato la serie Jar of foolspubblicata in Italia da Black Velvet nel 2000 con il titolo Giara di stolti.

Giara di stolti – acclamato in patria e non solo – racconta alcuni giorni della vita di Ernie Weiss, un prestigiatore fallito che si ritrova a dover fare i conti non solo con la sua inettitudine, ma anche con la rottura da Esther (sua vecchia fidanzata) e con la morte del fratello – anche lui prestigiatore – avvenuta durante il tentativo di una fuga subacquea. Il povero Ernie Weiss rappresenta un ritratto fallimentare del celebre illusionista Houdini (con cui condivide anche una certa similitudine di nome, dal momento che questi si chiamava in realtà Erik Weisz). I tema dell’illusionismo e dell’escapologia ritorneranno poi anche in altre opere di Lutes, come Houdini, the handcuff king (Hyperion, 2007) e Berlin

Giara di stolti faceva dell’approfondimento psicologico dei protagonisti il suo punto di forza ed era ambientata in una Seattle vaga, fuori dal tempo e dalla caratterizzazione molto nebulosa; la saga di Berlin, invece, ben più matura come concezione e dalla rigida strutturazione, non perde di vista l’obiettivo dell’analisi psicologica dei personaggi, ma carica il racconto con la descrizione e la rappresentazione di un’ambientazione enorme, viva, pulsante, attiva: la città di Berlino. Per quanto siano lontani, non ci torna molto difficile prendere la strada che dallo Stato di Washington ci riporta in Germania, se si considera come Ernie Weiss possa richiamare, sotto certi aspetti, l’Hans Schnier bolliano (clown fallito e solitario dopo la separazione dall’amata Maria).

Dicevamo, appunto, come Berlino nel secolo scorso sia stata crocevia di molte strade: infatti, è proprio su una strada, seppur “ferrata”, che inizia il racconto di Berlin. La giovane Marthe Müller è un’aspirante artista ed è sul treno che da Colonia porta a Berlino*: la ragazza vuole frequentare l’accademia d’arte della capitale. È il settembre del 1928 e, nello scompartimento della carrozza, Martha incontra il giornalista Kurt Severing, con cui stringe subito amicizia. Una volta giunti a destinazione, i due si salutano (ma non è un addio) e, mentre Kurt si dirige alla sede del suo giornale, Martha viene risucchiata nel flusso vitale della città. Attraverso le successive (600 e più) pagine Lutes si concentra poi su molti altri personaggi (alle volte questi vengono proprio inseguiti dall’occhio dell’autore), che diventano portavoce e narratori di tutte le realtà costitutive della complessa capitale. 

C’è Anna Lencke, compagno d’accademia di Marthe che subito si innamora di lei; oppure c’è Silvia Braun, ragazza tenace e forte, costretta a vivere per strada; c’è anche David Schwartz, ragazzo ebreo che vende giornali comunisti e Pavel, un senzatetto ebreo che rivende vecchi oggetti agli Schwartz; ci sono poi i Cocoa Kids, una jazz band proveniente direttamente dagli USA. Le vite di questi personaggi si intrecciano senza sosta in un tessuto che è contemporaneamente aggrovigliato e regolare e che rappresenta una “città dei destini incrociati”. Inoltre, ciascun filo (ciascun destino) viene intersecato anche dai cordami spessi della Storia, di eventi travolgenti. Ovviamente, le strade della città non sono calcate solamente da personaggi di finzione, ma anche da figure realmente esistite, come Horst WesselCarl Von Ossietzky e Adolf Hitler.

Ritornando appunto sull’importanza dell’illusionismo nelle opere di Lutes, possiamo osservare come la Berlino mostrata nel primo volume (La città dellepietre) appaia inizialmente una realtà illusoria, fittizia, filtrata dal punto di vista della giovane Marthe lontana da casa. Tuttavia, lo stupore cede rapidamente il passo alla brutalità della capitale, rappresentata dalle divisioni sociali e dai conflitti che squarciano la città. Gli scontri tra comunisti e nazisti all’interno della realtà urbana non fanno altro che accrescere una tensione sempre maggiore, culminante nel tristemente noto Blutmaiil “maggio di sangue” del 1929.

Berlino è sì un sistema, ma questo non è chiuso: così, il secondo volume (La città di fumo) racconta proprio dell’impatto del mondo esterno – in particolare degli Stati Uniti – sulla città. Vediamo la musica jazz invadere le sale da ballo e il crollo della borsa di Wall Street nel 1929 ripercuotersi sull’economia e sulla stabilità sociale, incendiando le disparità e facendo diventare sempre più concreto lo spettro del nazionalsocialismo che invade le strade con le sue parate.

La città della luce rappresenta invece il finale della narrazione, segnato dall’ingresso nella storia dell’incarnazione di quello spettro nazionalista cui si faceva riferimento. Così come il primo episodio si apre con l’arrivo nella capitale di Martha (sul treno), ecco che, parallelamente, il terzo si apre con l’arrivo nella capitale di un altro artista (sempre sul treno), seppur fallito e respinto per due volte dalla Accademia delle belle arti viennese: questi è Adolf Hitler. “Città della luce” appare così una denominazione antitetica rispetto a quanto accade: lascia presagire un futuro radioso (complice anche la copertina, mostrata all’inizio di questa recensione), ma in realtà è la luce stessa a gettare sui palazzi l’ombra lunga di un futuro ancora più oscuro e drammatico.

Al di là di quanto mostrato dei salotti dell’alta borghesia, dei locali straripanti di musica,  delle camere da letto, le vicende raccontate in Berlin sono aspre e lo stile visivo adottato è sì realistico – nella realizzazione degli sfondi, nelle proporzioni anatomiche, ecc. – ma rivestito da un velo cartoonesco. È una sorta di “realismo mascherato”, di “realismo ironico”, che infonde a qualche pagina (certamente non a tutte) un umorismo di fondo apprezzabile, in grado di accentuare anche la severità delle scene più drammatiche.

Il tratto è sottile, pulito e luminoso: sono poche le ombre e il più delle volte realizzate con un sottile tratteggio piuttosto che con un nero pieno. Per quanto riguarda l’illustrazione dei volti e delle figure si possono notare influenze dello stile di Hergé, ma anche di altri artisti come Vittorio Giardino o Marc-Antoine Mathieu. E sono proprio i personaggi a rappresentare una delle prime difficoltà nella comprensione della storia: questi sono tanti e in alcuni casi la caratterizzazione visiva non aiuta nella distinzione (in ogni caso, con il prosieguo della lettura ogni dubbio viene dipanato). La mano di Lutes si è evoluta rispetto a Giara di stolti e mostra un continuo miglioramento dalla prima all’ultima pagina (com’è ovvio che sia, dal momento che si parla di un’opera ventennale). Così, se nelle prime scene si osservano personaggi inespressivi e dalla gestualità vagamente rigida, andando avanti le pagine sono riempite da volti sempre più espressivi e pose sempre più dinamiche.

Un’evoluzione che ha dei riflessi anche nella narrazione, caratterizzata nei primi capitoli da tavole frammentate, suddivise in molte vignette piccole (in accordo anche con quanto già accadeva in Giara di stolti), laddove, invece, gli ultimi presentano tavole con poche vignette e più larghe, che danno un respiro completamente diverso al racconto. Anche dal punto di vista del ritmo si osserva come la progressione quieta, rallentata, dei primi capitoli lasci il passo a una forte accelerazione sul finale, coadiuvata anche dall’evoluzione del disegno e dalla drastica riduzione della componente dialogica.

Accelerazione che, tuttavia,  porta con sé anche la brusca interruzione di alcuni filoni narrativi. Al di là di alcuni personaggi che vengono volutamente trascurati o lasciati fuori campo (per i quali un finale in anti climax si rivela essere una scelta azzeccata), ce ne sono altri, invece, con cui risulta molto difficile entrare in sintonia, persino alla fine. I casi più eclatanti sono quelli di Martha e Kurt, a cui viene dedicata maggiore attenzione. Per numerose pagine, specialmente nel secondo capitolo, li si osserva perdersi e ritrovarsi, ma non si riesce mai a comprenderli veramente, anzi, appaiono poco interessanti se paragonati ad altri personaggi; purtroppo, sono noiosi e tali rimangono pure nella conclusione.

Realizzando Berlin Jason Lutes ha costruito un diorama complesso e prezioso, ricavato  dall’equilibrio tra immaginazione e studio approfondito delle fonti storiche. Un’opera poderosa nella sua concezione che vuole ricreare un sistema cittadino tumultuoso, ricchissimo di dettagli, eventi, scontri. Ne conseguono tre fumetti (o un unico grande tomo) che sono caratterizzati da un flusso magmatico e caotico di vite raccontate secondo precise ragioni geometriche.

L’autore segue i personaggi, entra nella loro testa – espletandone i pensieri stessi – e nelle loro vite, li segue fin dentro casa, anche solo per pochi istanti: il racconto caleidoscopico di questa umanità vivida alle volte richiama autori come il  Will Eisner di New York (Einaudi, 2008) e della triologia di Contratto con Dio (Rizzoli Lizard, 2017) o il Roberto Bolaño di 2666 (Adelphi, 2004), entrambi eccellenti nel saper ricreare interi mondi a partire da piccoli frammenti (come micro-cosmi che si espandono in macro-cosmi). Tuttavia, la narrazione di Lutes non è (passatemi il termine) “prorompente” e surreale come quella di Eisner o Bolaño, ma è condotta con una sistematicità e una logica molto diverse.

Si diceva in apertura che Berlin è un’opera strutturata e questa strutturazione, tradotta dalla sua matrice storiografica, è la cornice del racconto stesso. Gli eventi si susseguono inesorabilmente, con una direzionalità ben precisa, come un treno che corre sui binari; l’autore, Lutes, sale in carrozza e osserva il mondo fuori dal finestrino, anche solo con occhiate fugaci. Sono proprio queste occhiate fugaci che rappresentano appieno la logica di Berlin – e si è visto, invece, come altri personaggi cui viene dedicato ben più spazio risultano invece essere deboli. All’interno di una matrice rigida, la forza di Berlin sta proprio nelle sue brevi digressioni intimistiche, subito seguite dal ritorno sui binari. Un’opera da leggere e da rileggere, senza dubbio.

Francesco Biagioli

 


* Un’altra impresa vagamente simile a quella che Jason Lutes ha tentato con Berlin – nonostante la mole e anche l’esito siano ben diversi, così come il medium di espressione – è il film a episodi Heimat di Edgar Reitz (1984), in cui viene raccontata la vita del fittizio villaggio di Schabbach e della famiglia Simon durante il Novecento. Oltre alla commistione tra fiction e Storia, a unire le due opere c’è un certo umorismo di fondo, nonostante questo sia molto più pacato in Berlin. Inoltre, permettetemi un’altra curiosa considerazione: il primo episodio di Heimat di Reitz si intitola Fernweh, parola che in tedesco significa “nostalgia della lontananza”, voglia di abbandonare le consuetudini (in antitesi con quanto espresso dalla parola heimweh, che invece si traduce propriamente come “nostalgia”) e che si rivela essere un sentimento molto azzeccato per caratterizzare anche la giovane Martha, che fugge da Colonia per dirigersi a Berlino (con il rischio di venire diseredata).

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