Il fantasy militante: un manifesto di Salman Rushdie

978880472240HIGLa mia prima volta con lui è stata con I figli della mezzanotte: un romanzo che mi ha insegnato che si può raccontare la storia di un paese anche inventando di sana pianta, che l’unico modo per essere presi sul serio è scherzare su tutto, che il piacere della lettura sta non tanto nell’arrivare al punto quanto nel divagare, girando intorno alle cose – si può cominciare dalla genealogia di una famiglia per spiegare perché il protagonista, in questo momento, è lì a soffiarsi il naso. Salman Rushdie è senza dubbio uno dei grandi narratori del nostro tempo, e per fortuna non ha mai dichiarato, come fece il compianto Philip Roth, di voler smettere di scrivere. Quest’anno è tornato con un nuovo libro che si chiama Quichotte.

Inutile tentare di riassumere la trama. Basta dire che le linee narrative sono due. La prima è quella di Ismail Smail, commesso viaggiatore di una certa età che passa gran parte del suo tempo a guardare la televisione e un giorno si innamora di Salma R., una nota presentatrice televisiva: decide che la conquisterà, e inizia a spedirle lettere d’amore in cui si firma, appunto, Quichotte, come l’eroe letterario a cui si sente più vicino – forse il più sognante degli eroi letterari. La seconda è quella di Sam DuChamp, uno scrittore di spy stories di origine indiana che sta scrivendo proprio il romanzo che stiamo leggendo, la storia di Quichotte: un romanzo dentro il romanzo, insomma; due vite parallele che, come ha dichiarato Rushdie nella prima presentazione del libro, sono logicamente destinate, sebbene contro ogni logica, a incontrarsi.

I rimandi tra le due linee non si contano: sia Quichotte che DuChamp sono nati in India, entrambi fanno i conti con un’America sempre più intollerante, con una sorella con cui da tempo hanno reciso ogni contatto, con un figlio scapestrato, con una losca faccenda che riguarda un farmaco molto pericoloso a base di oppioidi. Sono, insomma, il riflesso uno dell’altro, in una perfetta rappresentazione del rapporto tra ciò che un artista vive e ciò che inventa; e questo aspetto rende il romanzo una casa degli specchi complessa e sofisticata, architettata a puntino. Talmente architettata da rischiare di sembrare labirintica: in certi punti, pochi, mi sono sentito un attimo perso e addirittura una o due volte mi è sembrato di non capire più di chi stessimo parlando, se dell’autore DuChamp o del personaggio Quichotte – un disorientamento narrativo del tutto familiare per chi in questi giorni sta guardando Dark.

Insomma, un romanzo divagante come ormai da tempo Rushdie ci ha abituati. Divagante, però, in un modo che talvolta rischia di inciampare nel cervellotico: si intrecciano e si accavallano riferimenti (spesso sottili, non di rado fini a se stessi) alla tradizione romanzesca e drammaturgica, alla televisione, a certi eventi e tendenze della politica e della vita sociale odierna, alla filosofia, alla cultura scientifica più recente, alla cultura popolare americana, alla cultura indiana: c’è di tutto e di più, e se non dovesse bastare possiamo aggiungere statue e pistole che parlano, intrighi di società segrete, intrighi di società farmaceutiche, figli che nascono dai genitori per partenogenesi: ecco, tutte queste cose messe insieme mi hanno lasciato la sensazione che il libro che stavo leggendo fosse non solo divagante “à la Rushdie“, ma che fosse semplicemente un casino. Non per gli ingredienti in sé, questo è evidente, quanto per l’apparente sconsideratezza con cui a volte sembravano essere stati mescolati.

In modo del tutto inaspettato, mi è capitato spesso, mentre leggevo, che mi tornasse in mente un altro romanzo recente in cui c’era questa corrispondenza tra una storia raccontata e la storia del suo autore (ce ne sono mille, ma questo, come ho detto, è recente), un romanzo completamente diverso sotto mille aspetti eppure estremamente vicino a quello di Rushdie, anche, ad esempio, per quel trucchetto di passare dalla terza alla prima persona da una pagina all’altra, senza un pretesto metanarrativo che giustifichi la transizione: parlo di La Sposa giovane di Alessandro Baricco. Il libro di Baricco, anche se contiene meno della metà delle riflessioni sociali e sull’attualità che da sempre Rushdie riesce a infilare nelle sue trame ai confini del fantasy, e neanche un briciolo di quel proposito postmoderno di rileggere e fondere elementi di cultura letteraria e popolare in un’unica opera – nonostante tutto ciò, il libro di Baricco è molto più riuscito proprio nel suo nucleo centrale, e cioè il semplice intento formale di mettere nella stessa storia un personaggio e il suo autore.

Questo – volendo sintetizzare – si deve a una compattezza, a una uniformità che nell’ultimo romanzo di Rushdie sembrano mancare (dice il saggio: senza uniformità sei fottuto). Troppi elementi per costruire una trama in fin dei conti semplice, così tanti che vengono lasciati morire perché diventano, a un certo punto, superflui: penso alla figura di Sancho, il figlio di Quichotte, che da sorta di amico immaginario diventa un ragazzo in carne e ossa (stavolta il riferimento è a Pinocchio: con tanto di fatina e grillo parlante) e alla fine si separa dal padre e va a sbriciolarsi in una nuvola di pixel davanti agli occhi del suo amore impossibile – senza che il vecchio Quichotte si decida a cercarlo o anche solo riporti alcuna conseguenza emotiva da questa separazione. Sparisce nel nulla, Sancho, proprio lui che si era conquistato spazio tra le pagine con la narrazione in prima persona: a poco più di tre quarti del romanzo è come se non fosse mai esistito.

Sono sicuro che alcuni non avranno apprezzato questo paragone tra Rushdie e Baricco, ma è utile a spiegare in modo immediato che certe volte anche i grandi fanno i loro errori: che faccia piacere o meno crederci, quel libro di Baricco raggiunge il suo obiettivo con un’efficacia maggiore. Quichotte è, in fin dei conti, un romanzo formalmente incompiuto, imperfetto; sebbene rientri a pieno titolo nella produzione di Rushdie in virtù dell’energia vulcanica e dell’ironia travolgente che lo caratterizzano, rimane a mio parere un’opera minore, non del tutto riuscita. Mi è sembrato che, più che un romanzo vero e proprio, Rushdie abbia voluto scrivere il suo manifesto della letteratura a venire: una letteratura fatta di pastiches, di fuochi d’artificio, di salti formali e salti dell’immaginazione, ma anche di una grande premura verso il mondo che ci circonda – una letteratura colta, sofisticata, eppure mai cieca, sempre militante. Una letteratura attenta a registrare l’odio e le intolleranze tipiche del nostro tempo, a scomporle e a metterle in mostra – almeno per i pochi che hanno orecchie per ascoltare.

A titolo di sintesi, riporto uno degli ultimi dialoghi tra il vecchio scrittore di spy stories Sam DuChamp e suo figlio:

«Credi davvero che la vita sia priva di senso e che noi ci stiamo trasformando in animali senza moralità?», chiede Figlio. DuChamp risponde: «Credo sia legittimo, in un’opera d’arte concepita nella attuali condizioni, dire che siamo indeboliti dalla cultura che abbiamo creato, dai suoi elementi più popolari, soprattutto. E dalla stupidità e dall’ignoranza e dalla bigotteria, sì». E allora, dice Figlio: «Tu cosa hai fatto al riguardo? Qual è stato il tuo contributo? Qual è, secondo te, il segno che stai lasciando in questo mondo?»
«Ho fatto il mio lavoro», risponde DuChamp, «e poi ci sei tu».

Pierpaolo Moscatello

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