“Il ladro in caserma” di Tobias Wolff: recensione inadeguata di un capolavoro

Il ladro in caserma, Tobias Wolff
(Racconti Edizioni, 2023 – Trad. Angela Tranfo)

9791280854087_0_536_0_75Recensire Il ladro in caserma (Racconti Edizioni, 2023) è un compito arduo, per una semplice ragione: è pura letteratura. Di fronte alla scrittura di Tobias Wolff non ci sono terze vie: leggerlo può generare un’incomprensione totale, oppure cambiarci. Nelle sue pagine è racchiusa una enigmatica semplicità difficile da decifrare, in quanto suggerisce molto più di quello che sembra dire. Non mi resta dunque che muovermi con cautela tra queste righe – sull’orlo dell’imbarazzo – alla ricerca di alcune delle chiavi di questo mistero.

Comparsa per la prima volta negli USA nel 1983, questa novella torna in Italia dopo che era stata pubblicata nel 2002 da Einaudi con il titolo Il colpevole, sempre nella traduzione di Angela Tranfo. La vicenda è ambientata nel 1967 e gli echi della guerra in Vietnam sono molto presenti, sebbene essa non sia mai raccontata direttamente. Il protagonista, Philip Bishop, è un giovane che si arruola nell’esercito per dare finalmente una direzione alla sua esistenza (‹‹La mia vita non sta andando da nessuna parte››[1], dice). Odia il padre Guy, che ha abbandonato la famiglia per un’altra donna, e non ha intenzione di occuparsi dell’apatico fratello Keith.

Nella caserma di paracadutisti in cui giunge per effettuare l’addestramento Philip non stringe amicizie tra i commilitoni, ma si lega in qualche modo a Lewis e ad Hubbard in occasione del Quattro luglio, festa dell’Indipendenza Americana, nel corso di un turno di guardia piuttosto surreale presso un deposito di munizioni che i tre devono sorvegliare con l’ordine assoluto di sparare a chiunque si presenti a tiro. Non lontano dal deposito si verifica però un incendio la polizia si reca dai giovani per invitarli ad allontanarsi, ma questi non ascolteranno ragioni e decideranno di rimanere lì a loro rischio e pericolo, affrontando l’incendio pur di eseguire gli ordini. Questo episodio appare in qualche modo fondante nella formazione di Philip assieme all’evento cui fa riferimento il titolo, e che è il centro attorno cui ruota la narrazione: a un certo punto nella caserma avverranno infatti degli inspiegabili e quasi insignificanti furti, che sconvolgeranno l’equilibrio della ordinatissima vita militare.

Gli eventi de Il ladro in caserma sono così: accadono sotto il segno dell’insensatezza. Non conosciamo mai veramente le ragioni delle azioni dei personaggi, la cui psiche è insondabile. Wolff non descrive il loro stato psicologico quasi in nome di una sorta di pudore delle emozioni (‹‹È impossibile parlare alla gente della loro sofferenza››[2]). Ad una prima lettura queste figure potrebbero sembrare alienate, ma in realtà ad emergere in queste pagine è la loro fragilissima umanità, raccontata con sguardo laicamente misericordioso.

Come nota Marco Peano nella sua introduzione, Wolff non giudica mai i suoi personaggi, dei quali presenta la nuda condizione esistenziale: essi sono inermi e senza punti di riferimento, dal momento che coloro che dovrebbero assumere questo ruolo latitano. Quella di Wolff è un’America che vede i padri in crisi: non si può non citare in proposito l’episodio in cui Philip si reca dal padre per chiudere i conti con lui e questi gli regala una bicicletta pieghevole (‹‹sembrava una di quelle bici degli orsi da circo››[3]) su cui monta egli stesso, cadendo rovinosamente a terra. Il ragazzo volta le spalle al padre mentre quest’ultimo gli chiede aiuto, quasi come un bambino al proprio genitore. Le madri appaiono invece in lontananza: parlano dal ricevitore di un telefono, scrivono lettere, soffrono, ma non sono mai veramente presenti. Ne Il ladro in caserma ci sono dunque solo e soltanto figli, che per giunta sono stati rinnegati da un’America feroce e troppo occupata in una guerra senza senso.

La pulizia dello stile di Tobias Wolff non fa che amplificare questa “realtà sporca”: non a caso la novella venne pubblicata per la prima volta nel numero della rivista Granta intitolato Dirty Realism. La sua scrittura è fatta di dettagli, di piccoli gesti narrativi che generano terremoti, come ad esempio la scelta di spostare più volte la prospettiva del racconto in poche pagine: a una prima parte in terza persona seguono due capitoli dalla prospettiva di Philip, per poi ritornare alla terza e chiudere infine con la voce del protagonista che racconta la storia anni dopo.

L’uso accorto dei flashforward rende fluida la materia narrativa, facendoci sporgere oltre gli eventi; due esempi su tutti: Philip regala la macchina al fratello Keith, gesto ‹‹di cui poi si sarebbe pentito››[4], dal momento che questi sparirà con quella stessa auto. Inoltre, uno dei riferimenti al Vietnam è reso potente dall’uso di questa tecnica, quando – guardando il volto del ladro ormai scoperto e pestato dai compagni – Philip dirà: ‹‹Era la faccia dei vietnamiti quando li interrogavamo, dopo avergli perquisito e a volte anche incendiato la casa››[5].

Queste dislocazioni temporali, questi micromovimenti di tempo e prospettiva permettono a chi legge di entrare e uscire dagli eventi, infondendo dinamicità ad uno stile che in apparenza potrebbe sembrare votato alla stasi. Wolff ci inganna facendo sembrare tutto semplice, ma in realtà nasconde un lavorio ossessivo sulla forma, grazie al quale riesce a incastrare gli ingranaggi di un meccanismo narrativo perfetto. Lo scrittore americano lascia sulla pagina soltanto ciò che è necessario: egli è esattamente come il ladro della caserma, che sottrae qualcosa scuotendo tutto ciò che è intorno. È così che i vuoti divengono più importanti dei pieni, poiché è tra di essi che si incunea lo sguardo del lettore, che per comprendere deve mutare postura, complicarsi la vita: scoprire.

Giacomo De Rinaldis

[1] p. 30

[2] p. 64

[3] p. 30

[4] p. 35

[5] p. 102

Immagine in evidenza di RDNE Stock Project da Pixabay

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