“Whale”, un’epopea della modernità

Whale, Cheon Myeong-kwan
(edizioni e/o 2023 – Trad. Rosanna De Iudicibus)

“Vivere significa spazzare via la polvere che si accumula.” p. 10

Whale si apre con il nome della protagonista, Chunhui, definita la ‘regina dei mattoni rossi’ dall’architetto di un qualche Gran Teatro; di questa donna, della fabbrica che dà il titolo al primo capitolo, e della catena di eventi e persone che hanno intessuto la loro storia, antenati, comparse, personaggi centrali ed eventi, il romanzo dà conto in più di 400 pagine, per poi chiudersi in una struttura circolare che ritorna al Gran Teatro, al suo architetto, e alla nascita della sua regina.

Finalista all’International Booker Prize 2023, il romanzo d’esordio del sudcoreano Cheon Myeong-Kwan è una storia ricchissima, di difficile definizione, ma è anzitutto una storia di solitudine, la descrizione delle strategie di adattamento ad un ambiente ostile verso tutto ciò che è diverso e deviante dalla norma; la descrizione della differenza, di una verità inafferrabile che vuole donarsi al mondo con parole proprie, per ricordarsi ed essere ricordata.

Così l’autore parte da un personaggio apparentemente estraneo alla vicenda; da lì racconta le straordinarie avventure di Geumbok, madre di Chunhui, anch’ella protagonista di gran parte del romanzo, e dell’ampissimo corollario di personaggi che in un modo o nell’altro le gravitano attorno, seguendola o apparendo in una vita tanto varia e clamorosa quanto improbabile. La vita della straordinaria Geumbok, baciata in egual misura da fortuna e disgrazia, è una festa continua; e come alcune feste, termina in tragedia.

I temi affrontati in Whale sono tanto numerosi da rendere una classificazione rigorosa difficile. Cercando una definizione per questo romanzo così ampio e sfaccettato, mi è riaffiorata – con paragone certo incommensurato, ma adattabile in scala al nostro contesto – l’espressione “enciclopedia tribale”, impiegata dallo studioso inglese Eric Havelock in riferimento ai poemi omerici. Dopo aver cercato di ricostruirne l’arco temporale, andando a caccia di ogni minimo indizio che potesse aiutarmi a stabilire una cronologia, ho concluso che per me Whale è una epopea contemporanea che abbraccia tutto il Novecento coreano, un’epica del passaggio da un mondo vecchio a un mondo nuovo, un passaggio tremendamente rapido quanto a volte stagnante; un’epica della modernità e dei suoi tranelli, l’epos dei piccoli, dei dimenticati, dei soli.

Se il paragone con la celebre definizione havelockiana può sembrare, giustamente, eccessivo, può tuttavia essere utile a comprendere lo spirito del libro. Myeong-kwan ricostruisce i passaggi e le trasformazioni attraversate nel corso del Novecento dal suo Paese, trasformazioni che non hanno lasciato indenne e immutato il resto del mondo – tutt’altro – ma qui declinate in chiave caratteristicamente sudcoreana. Descrive una civiltà rurale muoversi lentamente verso la città, treruote sgangherati che pian piano diventano furgoni fiammanti, una ‘vita verticale’ di montagna costretta ad adattarsi al ‘mondo orizzontale’ della ferrovia, miserie abituate a sopravvivere di animali selvatici mandati giù crudi a morsi, erbe e bacche.

Il mondo di Whale è un mondo antico e crudele, che lotta per la sopravvivenza, un mondo che, come anche nelle civiltà a noi più familiari, viene progressivamente addomesticato, rivestito di nuovi tessuti e colori, nuove regole e norme sociali, nuove abitudini; e pure resta sotto certi aspetti invariato, generando la tensione che è alla base di molte contraddizioni del vivere comune. Alcune scene di questo sociale crudo e primitivo possono risultare feroci, scabrose, difficili per un lettore italiano del ventunesimo secolo; eppure in queste dovremmo riconoscerci anche noi, qualcosa che parimenti ci appartiene e che non avrebbe senso nascondere sotto al tappeto.

Tra i tanti temi abbracciati dal romanzo troviamo la critica sociale, politica, economica: Myeong-kwan traccia un quadro grottesco della società capitalista e tardocapitalista, del filoamericanismo che la contraddistingue, dei regimi, della strumentalizzazione e appiattimento delle ideologie. Tra gli altri temi presenti ci sono tradizioni, folklore, credenze locali: memorabile è ad esempio il sincretismo antico-moderno nei sacrifici animali offerti dalle genti di montagna agli operai che stanno costruendo la ferrovia o nella descrizione di un rito sciamanico nella seconda sezione del libro, nonché il legame istintivo che si può ancora avvertire tra l’uomo e la natura. Centrale è anche la riflessione su ruoli e differenze di genere, che vede nella inaspettata transizione di uno dei personaggi il culmine paradossale.

Questo andamento ‘epico’ verrebbe quasi confermato dall’impiego di alcune formule, prime fra tutte le ricorrenti leggi (“Era la legge de…”) che scandiscono tutto il romanzo come pietre miliari o sentenze. Whale, definito a buon diritto da Monocle una “lezione di realismo magico”, con il suo tempo sospeso e imperscrutabile, gli elementi fantastico-fiabeschi e le iperboli, traduce in coreano l’atmosfera di Cent’anni di solitudine e la arricchisce di suggestioni inedite.

Infine, caratteristico di questo romanzo è il narratore onnisciente, che spesso interviene, rivolgendo direttamente al lettore commenti, excursus o riflessioni metaletterarie di vario genere – metalinguistiche, metanarrative, estetiche, a tratti filologiche o di spessore accademico, a volte discorsi metodologici ed esplicitazione delle fonti –, molto rappresentate lungo tutto il corso della storia.  

Alessia Angelini

Foto di copertina di Michail Dementiev su Unsplash

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