Che farcene delle cose che non vogliamo sapere?

Cose che non voglio sapere, Deborah Levy 
(2024, NN editore – trad. Gioia Guerzoni) 

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INIZIARE DA QUI. 

A Deborah Levy non sono mai piaciute le convenzioni: da bambina, iniziava a scrivere nella terza riga nei quaderni di scuola, lasciando uno spazio tra il margine della pagina e la riga in cui poggiava la penna. La maestra, sostenendo che questa pratica, oltre ad essere arrogante perché tutte cominciano dall’inizio, tranne te?  le faceva sprecare carta, riempiva lo spazio bianco con la sua scrittura rossa: INIZIARE DA QUI. INIZIARE DA QUI. Un giorno, a causa di questa sua insolenza, fu mandata dal preside, un uomo bianco col nome scritto in lettere d’oro sulla porta dell’ufficio, che la schiaffeggiò sulla coscia. Fu in quel momento che intuì una cosa: non sempre si sentiva al sicuro con le persone che avrebbero dovuto farla sentire al sicuro.  

Anni dopo, da adulta, si rese conto che c’erano altri posti, apparentemente innocui, in cui non era completamente al sicuro: erano le scale mobili delle stazioni. Durante una primavera, “quando la vita era complicata”, si ritrovava a piangere su quelle “scale magiche” che trasportavano il suo corpo immobile in su, facendo sfociare da dentro un pianto che era espressione del suo disagio interiore. Prese così una risoluzione: vincere le forze di inerzia che la trasportavano in posti in cui non voleva essere comprando un biglietto aereo per un posto in cui voleva essere davvero. 

Deborah Levy cerca rifugio a Palma de Maiorca, in una pensione inerpicata sui sentieri dell’isola, beata nel trovarsi in luoghi perduti quando già si sentiva perduta nella vita. Tuttavia, questa fuga non le vale la salvezza: una notte in cui una bufera di neve sta per abbattersi sull’isola, Levy è seduta a un tavolo col negoziante cinese del paese, e la conversazione con lo sconosciuto la trasporta, di nuovo, in luoghi in cui non voleva essere e la costringe a confrontarsi, forse per la prima volta, con le cose con cui non sopportava di convivere. Forse, questa volta, per affrontare il suo disagio, era costretta ad iniziare proprio da qui: dalle cose che non voleva sapere. 

È così che nasce, nel 2013, il primo volume della trilogia Autobiografia in movimento, che giunge in Italia per NN editore nella traduzione di Gioia Guerzoni. In Cose che non voglio sapere, Levy si racconta come soggetto, come donna e come scrittrice facendo sue le quattro ragioni dello scrivere di Orwell: finalità politica, impulso storico, puro egoismo ed entusiasmo estetico, in questo ordine. Inizia da qui: dall’infanzia a Johannesburg, nel Sudafrica dell’apartheid, vissuta come figlia di un prigioniero politico – suo padre fu arrestato perché sostenitore della parità dei diritti. L’Africa, quella parte di vita a cui aveva cercato di non pensare più da quando era andata in esilio con la famiglia in Inghilterra, era tornata con forza sulle scale mobili di Londra e si manifestava, finalmente, in un piccolo ristorante di Maiorca. 

«Quando una scrittrice porta un personaggio femminile al centro della sua indagine letteraria (o di una foresta) e quel personaggio inizia a proiettare luci e ombre dappertutto, deve trovare un linguaggio che in parte ha a che fare con l’imparare a diventare un soggetto piuttosto che un’illusione, e in parte con lo sciogliere i nodi con cui è stata messa insieme dalla società. Dovrà essere molto cauta perché avrà già molte illusioni sue. In effetti, sarebbe meglio essere incauti. È faticoso imparare a diventare un soggetto, figuriamoci una scrittrice». p. 43

Il viaggio a Maiorca diventa il pretesto di un viaggio interiore che, alla necessità di fare luce sulla propria storia personale, intreccia inevitabilmente l’urgenza sganciarsi dai miti che il Sistema Sociale patriarcale ha negli anni innalzato attorno all’essere donna. L’intento politico di Levy è dissolvere l’illusione, tra le altre, della Maternità come istituzione generata dall’incoscienza maschile, e lo fa poggiando le sue riflessioni su quelle di scrittrici che, prima di lei, hanno ragionato sulla decostruzione di questi concetti, ovvero Simone de Beauvoir, Julia Kristeva e Marguerite Duras. Cose che non voglio sapere è il memoir di una figlia, di una madre, di una scrittrice, di una donna che cerca la sua voce tra le tante che hanno preteso di raccontarla, che scrive la sua storia cercandosi tra le versioni di sé che si è sentita di dover essere e quelle che si è immaginata di poter essere. 

L’autobiografia di Levy non potrebbe che essere in movimento: la narrazione della propria vita passa attraverso viaggi fuori e dentro di sé perché è per natura impossibile ritrarsi come in un dipinto, per sempre uguali a noi stessi. Lo scrivere di sé mette in luce la nostra mutevolezza e ci dà la possibilità di vederci come individui erranti e irrisolti, fatti di strati di storie vissute. Quella di Levy, come tutte le narrazioni di sé, ha come unico requisito quello di essere vero non in quanto verosimile, ma in quanto necessario. Necessario, si intende, a trovare la propria verità e accettare i desideri solo nostri, nascosti tra le cose che non vogliamo sapere, riuscendo finalmente a nominarli con voce calma e chiara. “Parlare chiaro” poi, come consigliò l’attrice polacca Zofia Kalinska a una sua giovane attrice occidentale: “non significa alzare la voce, ma sentirsi autorizzati ad esprimere un desiderio.” 

Beatrice Palmieri 

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