Niels Lyhne, Jens Peter Jacobsen
(Iperborea, 2017 – Trad. M. Svendsen Bianchi)
Jens Peter Jacobsen doveva essere una persona malinconica. Solo le persone malinconiche sanno descrivere così bene la loro malinconia. E la nostalgia, che è sua parente stretta. E i lettori malinconici sanno rendersi conto di quando una malinconia è raccontata da un proprio simile. Io sono un prototipo di lettore malinconico.
Ho iniziato con uno sproloquio sulla malinconia, ma nel titolo si parla di nostalgie. La differenza tra le due a volte sembra sottile, ma la nostalgia è più specifica, esprime etimologicamente un “dolore del ritorno” e uno struggimento per la lontananza di qualcosa di cui si sente la mancanza. Niels Lyhne sembra sapere esattamente, di volta in volta, per cosa struggersi, di cosa sentire la mancanza, e Jacobsen parrebbe quasi sadico nel proporre di continuo spiragli, porte che vogliono aprirsi, che si aprono, che gettono una luce su questo ombroso protagonista, per poi chiudersi, in malo modo, in maniera incompleta, con irruenza, con calma, in silenzio, con grida.
Il lettore di volta in volta empatizza, spera, resta deluso e torna a sperare. E nel frattempo si lascia condurre dalla scrittura piana di questo autore danese della seconda metà dell’Ottocento, una scrittura non aliena da sprazzi di liricismo, da descrizioni non banali dove tutto sembra al proprio posto, scorrevole per la maggior parte del tempo.
Niels Lyhne è un romanzo. Di formazione, se vogliamo, anche se il carattere di Lyhne sembrerebbe già deciso e stabilizzato nel momento stesso della nascita, come il perfetto mix di quello dei suoi genitori: la madre, una donna sognatrice, romantica, uno spirito poetico deluso dalla quotidianità, e il padre, poetico solo il tempo necessario a procurarsi una moglie, per il resto concreto, solido lavoratore – anche se, per famiglia, potenziale membro della “Repubblica delle Lettere” – uno coi piedi ben piantati per terra. Le ispirazioni vengono dal naturalismo e dal romanticismo (quest’ultimo, non privo di una certa patina ironica).
Accompagniamo il protagonista dall’infanzia all’età adulta, e ogni tappa è scandita dalle sue nostalgie, unica costante in una dimensione variabile costellata di esistenze intrecciate e solitarie. Il titolo che Jacobsen immaginava in origine avrebbe anche messo in evidenza fin da subito qual è una delle prime mancanze di Niels: “L’ateo”. Niels cessa di credere nell’esistenza di un Dio fin dalla prima giovinezza e questo lo seguirà per tutta la vita; pur senza pentirsene, pur nella consapevolezza di come l’ateismo sia l’unica via da seguire per vivere appieno la propria esistenza terrena senza riporre aspettative in un mondo a venire, egli riconosce che la fede possa essere rassicurante, e addirittura rendere la sofferenza più sopportabile.
Ma il sentimento religioso non è l’unico cruccio di Niels. La perdita dell’infanzia, l’amore, gli ideali di una giovinezza che passa dal furore alla quiete, le speranze e le ambizioni che s’assopiscono in un pugno di cenere, nel descrivere tutto questo Jacobsen crea un classico e parla all’uomo di ogni tempo.
“E così Niels cresce, e tutte le impressioni infantili lasciano la loro impronta nella tenera argilla; tutto forma, tutto ha importanza, ciò che esiste e ciò che si sogna, ciò che si sa e ciò che s’intuisce: tutto vi incide con tratto leggero, ma sicuro, il suo solco di linee, che poi si amplieranno e si approfondiranno o si attenueranno fino a sparire.”
Come ho già scritto, la penna di Jacobsen sa destreggiarsi tra narrazione e descrizione con delicatezza e grazia, e ci sono diversi episodi che, personalmente, ho trovato davvero magistrali; uno su tutti: il passo della sedia a dondolo, che non descriverò in questa sede per non togliere a nessuno il piacere di scoprirlo da sé. Si trova nel nono capitolo ed è un capolavoro di finezza e allusività. Oltre che, naturalmente, di quella discrezione che spesso fa la sensualità.
Niels Lyhne è un caposaldo della letteratura nordica. Per comprendere meglio le attitudini di Jacobsen, possiamo partire col dire che studiò botanica e coniugò nella sua vita interessi scientifici e filosofici; era ateo egli stesso e tradusse Darwin in danese. Fu un seguace del naturalismo e allievo del critico danese positivista e radicale Georg Brandes.
Questo romanzo ebbe una forte risonanza su autori come Rainer Maria Rilke e Thomas Mann, che vi si ispirò per il suo racconto Tonio Kröger. È stato recentemente ristampato da Iperborea nel 2017 come parte della collana Luci, nata in occasione del trentesimo compleanno della casa editrice e costituita da dieci titoli tra i principali classici della letteratura nordica, nonché prime pubblicazioni della stessa Iperborea. Tale recentissima edizione lo vede tradotto da Maria Svedsen Bianchi e corredato di una postfazione di Claudio Magris.
Mi sembra lecito concedere le ultime parole all’autore:
“Vi erano pur state tante cose belle nella vita, si diceva […]. Ma se pensava agli uomini, il suo spirito tornava a intristirsi. Li evocava davanti a sé, uno dopo l’altro, e tutti passavano via, lasciandolo solo, neppure uno gli restava accanto. Ma lui, che cosa aveva fatto per trattenerli? Era stato fedele? No, era soltanto che li aveva lasciati andare più riluttante. Ma non era neanche questo. In fondo, la triste verità era semplicemente che un’anima è sempre sola. Credere che un’anima potesse fondersi con un’altra anima era un inganno. Non la madre, che ti prendeva in grembo, non l’amico, non la sposa che riposava sul tuo cuore…”
Alessia Angelini
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Immagine in evidenza: Moonrise by the sea, D. C. Friedrich
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