Sull’importanza della mobilitazione ideologica degli scrittori italiani

“Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo? Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti.”
                                                                                             Antonio Gramsci

 

Negli scorsi giorni, i dodici finalisti del Premio Strega hanno firmato un appello per chiedere la riapertura dei porti italiani alle navi delle ONG dopo il caso Aquarius. Sebbene l’iniziativa non abbia avuto la risonanza che mi aspettavo e malgrado siano emersi scetticismi, dal mio canto l’ho accolto come un caso eclatante: sostanzialmente, un gruppo di scrittori, in corsa al più importante premio letterario nostrano, prende pubblicamente posizione nei confronti di un’azione del Governo.

Del perché sia importante e necessario che oggi, in Italia, gli scrittori facciano sentire la propria voce nel dibattito pubblico e politico, tratterà questa breve riflessione.

Storicamente il rapporto tra un’intellighenzia di scrittori/intellettuali e l’attualità politica in Italia ha visto la sua massima espressione nel Manifesto degli intellettuali antifascisti; tuttavia, nel terzo millennio, iniziative paragonabili anche solo al suddetto appello rappresentano un’eccezione. Sarà pur vero che il tentativo dell’appello è velleitario, destinato a non sortire effetti; ma una vigilanza di scrittori – e intellettuali in genere – sull’attività politica, e un loro contributo critico e attivo al dibattito rivestono oggi un’urgenza e una necessità estremi.

Guardando al passato, quando gli esponenti della cultura godevano di prestigio sociale, l’intellettuale aveva una centralità notevole nella sfera pubblica e nel dibattito politico. Si pensi al ruolo di Gaetano Salvemini rispetto alla cesura tra interventisti e neutralisti allo scoppio della Grande Guerra o nel vigilare l’attività di uno statista quale Giolitti; si ricordi il contributo di Croce nel già citato Manifesto; oppure, per passare alla seconda metà del ’900, si pensi a quanti grandi scrittori erano mobilitati politicamente, da Vittorini a Silone, da Sciascia a Calvino.

Dove sono oggi queste categorie di scrittori? che calcano ideali senza rimanere nel limbo dell’ignavia? che stimolano una coscienza critica e indagano la realtà? che liberano i cittadini dall’indolenza mentale e culturale a cui sono spesso relegati?

È indubbio che oggi la figura dello scrittore è simbolicamente destrutturata, socialmente declinata verso un abisso sempre più profondo, al pari di qualsiasi esponente del mondo della cultura – a partire da insegnanti e docenti. Le ragioni sono molteplici, sia esterne sia interne al mondo della cultura. Questo declino sociale di certo non favorisce una presenza istituzionalizzata dello scrittore nel dibattito politico e nell’opinione pubblica – con alcune eccezioni per i soliti volti invitati ai salotti televisivi. D’altra parte, il mancato contributo dei letterati è imputabile anche allo scrittore stesso, che oggi spesso non si impelaga in questioni estranee alla letteratura, e isolati sono gli esempi di scrittori politicamente e socialmente attivi.

(Più che a Saviano – attivo sì, e bisogna dargliene merito, ma nelle vesti ormai di personaggio televisivo più che di intellettuale, e con modalità spesso sensazionalistiche tipiche del personal branding – penso al compianto Alessandro Leogrande e alle sue inchieste, oppure a uno scrittore sempre attento fuori e dentro i suoi romanzi come Di Paolo, oppure ricordo il De Luca della battaglia No Tav, per citarne alcuni.)

Il ruolo di uno scrittore propriamente detto non può limitarsi alla stesura di un romanzo e alla sua promozione editoriale; e nemmeno dovrebbe limitarsi – perlomeno utopicamente – alla produzione esclusiva di opere che raccontano il suo io in infinite declinazioni diverse. Non può, perché i tempi stanno cambiando. La qualità della politica e degli ideali che muovono la cittadinanza stanno evolvendo verso scenari pericolosi, e gli scrittori non possono sgravarsi dall’onere di opporre una resistenza culturale e ideologica.

Coloro che fanno letteratura, certo, hanno tutto il diritto di scrivere di sé, di non inserire tematiche politicamente rilevanti o di denuncia nei loro scritti, i capolavori nascono certo anche così; ma fuori dalla produzione culturale del libro, perlomeno, essi dovrebbero far valere il proprio ruolo. La vera differenza, oggi, tra uno scrittore propriamente detto e un mero autore di storie la fa questo.

Dove la politica e anche il dibattito giornalistico incentivano l’abulia, l’indolenza e l’inoperosità di pensiero, offrendo idee e opinioni prodotte in serie di facile utilizzo, è lì che l’unico baluardo in difesa della qualità democratica, della libertà espressiva, della pratica culturale di un paese è rappresentato dai letterati e intellettuali tutti. Essere esponenti del mondo culturale non è banalmente un piacere. Essi hanno delle responsabilità nei confronti di tutti gli individui, contro ogni alimentazione propagandistica della paura, contro qualsiasi tentativo di mettere l’uomo contro l’uomo, contro tutte le possibili forme di decostruzione della realtà.

Per tornare dunque al nostro punto di partenza, ben vengano le iniziative come l’appello firmato dai dodici finalisti dello Strega: non si sono ricevuti dei risultati, ma non per questo si deve pensare di mollare, che tutto il possibile sia stato fatto e che tentare ancora sia inutile. Dev’essere un esempio, un punto di partenza, un’esperienza da ripetere e ripetere e ripetere ancora.
Oggi, in Italia, gli scrittori devono fare propria la lezione di Zola ed avere la coscienza critica e l’onestà morale per alzare l’indice ed esclamare il proprio J’accuse! 

– Giuseppe Rizzi –

(Keystone)

5 Comments

  1. Innanzitutto grazie per questa riflessione; cercherò, nei limiti del possibile, di aggiungere qualcosa anche io.
    Per rispondere alla tua osservazione (e cioè perché sia importante che gli scrittori prendano posizioni politiche) sento di dover partire da alcune constatazioni. La prima è che nel mondo della letteratura contemporanea italiana non ci sono più intellettuali del calibro di Vittorini, Sciascia, Calvino…
    Diceva proprio Italo Calvino in un suo saggio: ‘Delle cose del mondo la Letteratura che vale ci dà coscienza: ci fa esplodere la carica morale dei fatti sotto gli occhi perché noi reagiamo’. Alla luce di quelle che sono le opere dei principali autori moderni si vede chiaramente che le maggior parte di questi non scrive per far riflettere ma semplicemente per intrattenere. Gli scrittori che cercano ( o cercavano) di indurre alla meditazione sono davvero pochi, credo che l’unico che ci abbia provato sia stato il compianto Alessando Leogrande, da te giustamente ricordato. Persino Saviano sembra non abbia più nulla da dire, i suoi ultimi romanzi, che parlano della criminalità giovanile a Napoli, non dicono nulla di nuovo (sullo stesso tema aveva già scritto un libro Stefano Crupi, ‘Cazzimma’, tanto per fare un esempio). Inoltre, se si dà un occhio alle nuove uscite editoriali si nota che oggi scrivono tutti di sé: della propria depressione, del cancro… tutto si attesta su un insopportabile livello di autoreferenzialità.
    Una seconda personale osservazione sta nel fatto che si parte dal presupposto che laddove ci sia una politica gretta e deviata gli intellettuali siano subito pronti a discostarsene, a condannarla e a prenderne le distanze. Secondo me questo non è vero. Basti pensare che nell’epoca fascista non pochi furono gli intellettuali che, lungi dal condannare la dittatura, l’abbracciarono. Penso semplicemente a Pirandello, a Malaparte… Per non parlare poi del fatto che, su quasi 1200 professori universitari, soltanto quindici rifiutarono di giurare fedeltà al fascismo, perdendo la cattedra.
    Infine l’ultima considerazione riguarda la popolazione. Quest’ultima ormai non ascolta più i c.d. intellettuali, anzi li condanna, li sbeffeggia; in sostanza la figura dello scrittore ha perso di autorità, anche a causa dell’incapacità di farsi ascoltare e comunicare con il semplice cittadino.
    Alla luce di tutto ciò io non ripongo molta fiducia negli autori di oggi, credo che non siano in grado di ‘fare propria la lezione di Zola’, son troppo impegnati a specchiarsi, ad andare nei salotti televisivi a fare gli opinionisti, a scrivere post sui social…

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  2. Ciao Michela, grazie del tuo prezioso confronto, sono molto contento di leggerti. E grazie della citazione di Calvino, che non avevo presente.
    Insomma, vedo che siamo abbastanza d’accordo.
    L’unica cosa su cui mi sento di puntualizzare è quanto esprimi nella seconda parte, la questione del fascismo. Il tema degli intellettuali sotto il regime è ben più complesso di così, e deve tener conto della complicata situazione sociale e politica del ventennio per poter essere inquadrata e compresa.

    Il sostegno pubblico al regime aveva vari significati e declinazioni, e non era necessariamente attestazione di vera stima. Era diffuso un sostegno di facciata, che era, a mio parere, quello di Pirandello, che altrimenti non avrebbe potuto rappresentare i suoi spettacoli a teatro; o quella dei professori universitari, che fu una costrizione e non una libera espressione – tenendo in oltre presente che lo stesso Croce, antifascista per eccellenza, invitò i professori a prestare giuramento, per poter combattere il sistema dall’esterno. Aggiungo anche che nelle organizzazioni giovanili fasciste culturali e universitarie si formò quella che sarebbe stata la sinistra repubblicana, e già allora i suoi esponenti nutrivano ideali spesso non fascisti (come Giorgio Napolitano e tanti altri). Infine si tenga presente che tanti intellettuali furono costretti alla fuga all’estero o condannati al confino.
    Un altro aspetto da tener presente è che molti intellettuali, come Malaparte che citi oppure come un altro grande, Bontempelli, furono affascinati, come la maggior parte degli italiani, dagli ideali che il fascismo promulgava ALL’INIZIO della sua parabola (che se ci pensi, sono gli stessi che si professano oggi: l’ordine, il cambiamento, un risanamento della classe politica, ecc), ideali già presenti nella società europea che veniva dalla Grande Guerra e che il fascismo fece propri (a differenza del nazismo, il fascismo italiano non aveva infatti una vera e propria, solida, ideologia). Quando si fece autoritarismo, infatti, Malaparte fu contrario al regime, e anche Bontempelli si ricredette.

    Ma non si tratta di semplice adesione, si tratta di onestà intellettuale, di impegno critico a prescindere dagli ideali: il Malaparte pre-fascista fu un attentissimo analista dell’Italia post-bellica dei primi anni ’20, scrisse opere preziose come Viva Caporetto! che ho anche recensito e che fu addirittura censurato dal Regime in anni in cui Malaparte lo supportava ancora. E così fu il Malaparte post-fascista, che scrisse Kaputt e La Pelle documentando magistralmente l’Italia della seconda guerra mondiale. Il Malaparte fascista e post fascista era ugualmente un assiduo analista della società e della politica italiana.

    Quindi, da una parte, anche chi era favorevole al fascismo restava un attento analista, e al tempo stesso, pur secondo gli ideali dominanti, comunque svolgeva un contributo eccellente nel dibattito da intellettuale – non perché fascisti parlavano di sé.
    Dall’altra, se c’era intellettuali pro-regime, c’erano tanti scrittori che osteggiarono il fascismo apertamente, come Gobetti su cui Di Paolo ha scritto un bel romanzo, altri che lo criticavano velatamente, come Silone, come Bacchelli, come Alvaro, solo per citarne alcuni.

    A prescindere dall’orientamento, quindi, c’era quella lotta all’abulia che Gramsci invitava a combattere, a fronte dell’egoreferenzialità che tu giustamente segnali e che affolla le pubblicazioni odierne. Non si chiede di combattere l’autorità, altrimenti da letterati sarebbero martiri, come Gobetti, ma anche solo di smuovere la coscienza critica di chi legge, di dare un contributo al dibattito fuori e dentro le opere. Chiedere una lotta politica, oggi come allora, è chiedere troppo, lo scrittore non dev’essere un condottiero, un rivoluzionario politico, deve invece tenere sveglio il popolo, vigilare sulla politica e denunciarne gli abusi di potere, contro, come scritto, qualsiasi tentativo di mettere l’uomo contro l’uomo, e, più in generale, contro ogni tentativo della politica di farsi portatrice di interessi personali e non collettivi. E per concludere bisogna anche tener presenti che gli intellettuali non sono un essere con un unico cervello, possono avere ideali di destra così come di sinistra.

    Per concludere, come avrai intuito, condivido con te un certo pessimismo riguardo al fatto che la lezione di Zola trovi discepoli, ma confido anche che qualcosa possa cambiare. Zola non era solo il Zola del J’Accuse, viveva anche in una società dopo la sua opinione era importante. Quale giornale, oggi, pubblicherebbe in prima pagina, a caratteri cubitali, un j’accuse di un qualche Zola nostrano?

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  3. Caro Giuseppe, grazie per il tuo commento. Come avrai capito dal mio precedente intervento condivido molti punti della tua analisi, così come sono consapevole (ma tu hai saputo spiegarlo molto meglio di me) del fatto che l’adesione di molti intellettuali al fascismo è effettivamente complessa da inquadrare. È vero, Pirandello aderì al fascismo per non vedere la sua attività teatrale ‘rallentata’, possiamo quindi dire che lo fece più per ragioni di convenienza che non per sincera condivisione degli ideali fascisti (una adesione magari può ravvisarsi nel primo periodo del fascismo, quando quest’ultimo sembrava aver intenzione di ristabilire ordine, sicurezza ecc., come tu giustamente hai sottolineato). Così come so del fatto che anche il rapporto tra Malaparte e il fascismo fu difficile ed altalenante. A questo proposito ricordo ‘Malaparte. Morte come me’ l’ultimo libro dei coniugi Monaldi e Sorti (recensito anche in questo blog lo scorso anno) in cui sotto forma di romanzo viene un po’ descritto il rapporto, non sempre idilliaco, dello scrittore con tutto l’apparato fascista in generale e con il Duce in particolare. Quello che cercavo di dire è che accanto ad una schiera (fortunatamente ampia) di intellettuali che presero le distanze dal fascismo e ne subirono poi le conseguenze, ce ne furono altri, invece, che non fecero lo stesso, per ragioni complesse e sfumate, ma tant’è.

    Ritornando al giorno d’oggi credo che, come già detto, gli scrittori in grado di saper far riflettere siano pochissimi (oltre al già citato Leogrande, mi viene in mente, con le dovute differenze di stili e contenuti, Giuseppe Catozzella). Ci sarebbe molto da dire sul perché oggi uno scrittore non sia più in grado di fornire un contributo rilevante all’interno della società, sia dentro che fuori le opere. Credo che una delle ragioni stia nel fatto che l’autore viene visto dalla casa editrice come una fonte di guadagno e quindi per aver possibilità di vedersi pubblicato deve scrivere di determinate cose in un determinato modo. Per fare un esempio, vista l’aria che tira, quasi nessuno oggi comprerebbe un libro di un autore che auspica l’accoglienza dei migranti ed altre tematiche a cui la popolazione è molto sensibile (probabilmente avrebbe più successo una ripubblicazione di un libro Oriana Fallaci, le cui idee vengono praticamente abusate ogni giorno). Tu te lo chiedi, forse in maniera retorica, nella frase finale del commento (‘ Quale giornale, oggi, pubblicherebbe in prima pagina, a caratteri cubitali, un j’accuse di un qualche Zola nostrano?), ecco io sento di risponderti che nessuno lo farebbe. Di conseguenza un autore non è interessato a scrivere di certe cose e, così facendo, viene meno il suo contributo intellettuale alla società. Stesso discorso può farsi, mutatis mutandis, per la televisione.
    Dall’altro lato c’è da dire che una buona fetta dell’ideologia politica di questi tempi ha saputo, in maniera estremamente suasiva, gettare discredito su buona parte degli intellettuali, visti ormai come appartenenti all’élite – a cui si contrappone il popolo-, identificati come buonisti, radical chic…
    Per sintetizzare il tutto, da un lato, c’è un’incapacità degli scrittori- vuoi per mancanza di doti, vuoi perché è difficile vedere, per le ragioni sopra dette, affiorare il proprio pensiero controcorrente su larga scala- nel comunicare con la cittadinanza; dall’altro lato proprio la cittadinanza, talvolta anche con ragione, non ha più voglia né interesse ad ascoltare il mondo della cultura, non si fida più, non riesce più a specchiarsi in esso o a trovarvi risposte.
    A cosa porterà tutto ciò? Sinceramente non so dirtelo e credo di non volerlo nemmeno sapere. Ritengo però che gli scrittori, per poter ritornare a dire qualcosa al mondo, a smuovere le coscienze e il senso critico, prima ancora che un J’accuse debbano fare un mea culpa.

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  4. Grazie a te, Giuseppe, per l’articolo estremamente interessante e per il tuo successivo commento. Spero anche io di leggerti di nuovo. A presto!

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