Centinaia di inverni, la vita e le morti di Emily Brontë, Sara Mazzini
(Jo March, 2019)

Due settimane fa ero a Pomigliano per la presentazione del libro di Sara Mazzini: Centinaia di inverni, la vita e le morti di Emily Brontë, dove ho avuto il piacere di poter ascoltare l’autrice, che ormai mi piace pensare sia anzitutto un’amica. Forse non sarò in grado di parlare di questo libro come ne hanno parlato lei e gli amici di CrapulaClub (Alfredo Zucchi, Luca Mignola e Antonio Russo De Vivo) che erano lì quella sera; forse non saprò incitarvi a porvi le giuste domande sul testo – in particolare ce n’è una, ma che mi riservo per la fine di questo pezzo – ma voglio provare a darvi la dimensione e la cifra di questo romanzo (apparentemente) biografico.
Il testo si presenta come il racconto in prima persona della vita (e delle morti, of course) di Emily Brontë: Emily ci racconta della sua esistenza a partire dall’infanzia. Il romanzo è diviso in tre parti, e – almeno per quel che ho percepito – aleggia in ognuna di esse una certa “pressione” da parte del destino, come se Emily fosse sempre in attesa di un evento o della realizzazione di una parte di sé.
Da bambina, per esempio, questo avviene quando si rende conto che il suo destino dovrà essere quello di divenire istitutrice. Come se alcune decisioni non fossero imputabili ad Emily stessa, ma che ci sia una forza superiore che le indichi il cammino; accade quando capisce di essere destinata all’insegnamento, e accade anche quando comprende di poter diventare una scrittrice. Probabilmente, la Emily di Sara Mazzini sente come superiori a sé delle forze che la controllano, perché anche lei non comprende appieno sé stessa, avendo una personalità fatta come un prisma di mille vite differenti.
Sara Mazzini ha uno stile narrativo molto furbo, non nel senso deteriore del termine; l’autrice è pienamente cosciente del fatto che la sua Emily non sarà mai davvero quella “vera”, e così ha deciso di “imbellettare” la narrazione, spargendo indizi qua e là delle opere della Brontë. Non è raro, infatti, trovare qualche nota a piè pagina che indichi che una descrizione, un dialogo o una frase siano state riprese dai romanzi di Emily. Questa scelta stilistica, a mio avviso – seppur esteticamente poco vicina alla narrativa e più alla saggistica – concede al racconto un tocco di realismo. È come se la Mazzini di tanto in tanto, in un piccolo dialogo, in una descrizione apparentemente innocua, ci richiamasse all’attenzione dicendo: «È proprio qui, in questo suo momento della vita così trascurabile, che Emily ha vissuto qualcosa che poi ha trasposto nei romanzi». In tal modo si crea un legame di finzione magica tra noi e questa Emily letteraria. La Mazzini ci dice che magari non è andata davvero così, forse non è accaduto niente di quanto descritto, ma avrebbe potuto esserlo.
Il romanzo ci pone davanti a una Emily così empatica da avere la dote (in)naturale di poter vivere anche più d’un esistenza. Mentre le sorelle hanno avuto una vita sola – costellata certo da amori e passioni – e hanno scritto di ciò che vivevano direttamente, Emily non avuto una passione sua. Ma ha avuto quelle di tutti gli altri suoi cari vicini: e queste furono molte di più e lei seppe parlarne molto meglio, come se fossero state sue. Per questo il romanzo parla anche delle morti della Brontë: queste sono tutte le morti di chi ha amato e ha avuto vicino; lei è stata tutti loro, non è mai stata “solo” sé stessa. Ad ogni inverno, si aggiungeva una morte, una vita, fino all’ultimo, definitivo inverno, dove Emily ha trovato la fine definitiva.
A tal proposito, la domanda che mi sono lasciata per ultima, che è anche la domanda che ha originato casualmente questo racconto – e che adesso ripropongo qui come una sorta di piccola provocazione – è: Emily Brontë si lasciò morire a causa dell’estremo dolore per la morte dell’amato fratello, o perché aveva vissuto mille vite in una?
Clelia Attanasio