Vanni Santoni racconta “I fratelli Michelangelo”

A metà marzo è uscito per Mondadori I fratelli Michelangelo, l’ultima fatica di Vanni Santoni, scrittore energico e poliedrico, direttore della narrativa per Tunué, redattore per varie riviste e testate giornalistiche, insegnante per la Scuola del Libro. In breve, la trama del romanzo è questa: Antonio Michelangelo, ormai anziano, chiede ai figli di andarlo a trovare nella sua casa a Vallombrosa, con la prospettiva che possa essere, forse, l’ultima volta. Rispondono all’appello quattro figli su cinque: Enrico, Louis, Cristiana e Rudra, di cui si narrano le vite, tutte molto diverse tra loro. Nell’intervista-fiume che segue, la più esaustiva finora redatta sui Fratelli Michelangelo, Vanni Santoni non solo racconta  la genesi del romanzo, ma anche tanti interessanti retroscena. In fondo è disponibile anche il link per scaricare il documento in .pdf. Non è necessario aggiungere altro, se non: buona lettura!

Partiamo dal principio: come e quando è nata l’idea di scrivere I fratelli Michelangelo?

L’idea di scrivere un romanzo di un certo respiro, ambientato in tanti luoghi nel mondo, la covavo da tempo, addirittura dal 2009: dopo gli Interessi in comune, che era già corale ma ambientato quasi solo nel Valdarno, abbozzai un libro che poi non ha mai visto la luce, in cui c’erano due fratelli che giravano l’Europa; era diviso proprio per città e strutturato per alternanze. Il fratello era un perdigiorno che faceva una sorta di Interrail fuori tempo massimo; la sorella una raver che girava i luoghi più improbabili del continente al seguito delle carovane free tekno (ripensandoci, fu lì che cominciai a elaborare la mia esperienza in quel mondo e quindi ad affrontare temi emersi poi più dettagliatamente in Muro di casse). Dietro ai viaggi dei due fratelli c’era anche l’ombra di una storia familiare, sebbene completamente diversa da questa: la loro era una famiglia un po’ vittima della noia; il padre e la madre erano diventati degli esseri inerti, sordi a ogni stimolo. Si trattava dunque di un romanzo del tutto differente, ma in cui cominciava a filtrare l’ambizione di realizzare una grande narrazione transnazionale.

Quel testo alla fine rimase inedito e io, che non sono mai stato complottista neanche per quanto riguarda me stesso, pensai “se è rimasto inedito vorrà dire che avrà dei difetti”, e lo accantonai senza troppi lutti, del resto era appena arrivata la proposta di Laterza per un “Contromano”, che divenne poi il fortunato Se fossi fuoco arderei Firenze. Credo ancora che i difetti ci fossero – fondamentalmente non avevo ancora preso le misure a certe esigenze strutturali e di “microtensione” richieste da un romanzo lungo e di tipo non avventuroso – e non riprovai a pubblicarlo neanche successivamente, quando il mio pubblico e il mio “credito editoriale” erano ben più considerevoli: finii addirittura per smembrarlo, usandolo tipo “banca di organi” ogni volta in cui mi veniva chiesto un racconto da qualche rivista. Non essendo di base un raccontista, prendevo parti di quel libro, che peraltro – ulteriore difetto – era costruito “a medaglioni”, cioè con molte parti auto-conclusive, e le adattavo come racconti. Nel 2012, prima di buttarmi sulla saga di Terra ignota e su Muro di casse, mi tornò l’idea di provare a fare il “grande romanzo”, un’idea che si manifestò sotto la forma di tre immagini scollegate tra loro. Nella prima c’era un tizio che andava a trovare un suo amico in un carcere di un paese in via di sviluppo; mi sa che avevo appena letto un reportage da una galera dominata dalle “maras”, quelle gang giovanili centroamericane efferatissime, e mi ero immaginato una scena in cui uno andava a trovare un suo amico a cui avevano rotto tutti i denti… Era una scena narrativamente interessante perché chi non ha denti parla in modo ridicolo, sicché c’era un contrasto tra l’estrema drammaticità della cosa e il fatto che fosse buffa – il che la rendeva ancora più tragica. All’inizio la scena era nata così, scollegata da qualunque aspirazione narrativa, anche se sapevo che poteva andare da qualche parte: chi erano quei due? Perché uno era dentro e l’altro fuori? Da lì sarebbero nati Louis Michelangelo e il suo amico-socio Carlo Felici.

La seconda immagine nasce da un gesto: un giorno, mentre stavo guardando la mia biblioteca, mi prende lo sghiribizzo di trascrivere tutti i volumi in mio possesso, di fare una sorta di catalogo. Ora, la mia biblioteca è all’apparenza abbastanza disordinata, dato è divisa per “aree di potere”: i libri per me più importanti – quelli che emanano più mana, se vogliamo sono nel mezzo, quelli di media potenza stanno intorno, e quelli che non hanno potere magico sempre più ai lati… Al di là di questo, mi misi a trascrivere i vari titoli, e la cosa affascinante fu che di ogni libro subito si legava a dei frammenti di biografia; mi ricordavo dove l’avevo letto, comprato, o chi me lo aveva regalato. Questa scena la troviamo in piccolo nella parte di Enrico: lui a un certo punto va alla casa dei genitori a San Giovanni Valdarno e vede dei libri, specialmente quelli che lo avevano persuaso a fare Lettere, e inizia a capire che forse erano arrivati in casa attraverso Antonio Michelangelo. Lì ovviamente ho cambiato tutto: i libri di Enrico non sono per forza i miei preferiti; alcuni sì, ma tendenzialmente sono sia i libri più adatti a lui e al suo carattere, sia una sorta di legenda dei testi citati all’interno del libro stesso. Tutto l’apparato intertestuale, invece di essere posto in una nota finale con un elenco di libri citati, sta dentro la biblioteca di Enrico – e non è solo questione di eleganza: c’è un motivo ulteriore, come è stato notato da Graziano Graziani a Fahrenheit.

Terza immagine: un medico, donna, potente, un primario, alla fine della giornata di lavoro in ospedale dice alla caposala di voler stare in pace; si chiude nell’ambulatorio, si fa un’inframuscolo con la ketamina dell’ospedale e si scioglie nel più totale rilassamento. Da questo nucleo è nato il personaggio di Aurelia, primaria del San Raffaele di Milano; poi però il personaggio ha preso tutt’altra direzione: lei è una donna rigorosa che non ruberebbe mai la ketamina dell’ospedale per farsi una pera, quindi questa scena è scomparsa; ma l’idea di un personaggio medico che stesse in una posizione un po’ esterna ai fatti nasce da lì.

A partire da questi primi embrioni, e da altre immagini ancora scollegate sorte dopo, ho lavorato per un annetto, ed è nata, ancora molto in controluce, la figura di Cristiana, perché un’altra cosa che volevo fare era approfondire il mondo dell’arte contemporanea, ambito che seguo da sempre e di cui mi affascina in particolare il suo essersi liberato dal medium. Puoi usare tutto: la pittura, la scultura, i video, le foto, il corpo, i luoghi, i più diversi materiali – anche i rifiuti o i liquidi organici! – fino alle parole, alle pure idee… Questa è una grande cosa, anche se può portare l’arte più concettuale (e ovviamente l’arte concettuale poco riuscita) ad accuse di “fuffa”. Ma se ci pensiamo, il fatto che un’arte si sia del tutto scollegata da qualsiasi supporto è una cosa molto bella. Oltre a Cristiana, era apparso Rudra: un’altra cosa che mi interessava, anche se ancora l’idea precisa non c’era proprio, era quella di raccontare l’anima di un mistico nella testa e nel corpo di uno che mistico non è.

Ripresi i lavori nel 2015, dopo la saga di Terra ignota e Muro di casse: lavorai tutto l’anno a I fratelli Michelangelo, definendo meglio le figure dei protagonisti: le parti di Enrico e di Louis le avevo quasi tutte scritte; Cristiana cresceva molto, e un pochino anche Rudra. Apparve poi Antonio Michelangelo: la chiamata del padre doveva essere all’inizio quello che agli insegnanti di scrittura piace molto definire, con Hitchcock, “MacGuffin”, ovvero il pretesto per scatenare gli eventi. In realtà poi Antonio Michelangelo si è rivelato essere molto di più – è cresciuto, ha preso spazio, fino ad avere una posizione centrale. In molte recensioni viene addirittura definito il protagonista del libro, anche se è quasi sempre disegnato “in negativo”, attraverso i ricordi, i punti di vista e le parole degli altri personaggi. Ho interrotto di nuovo i lavori nel 2016 per scrivere La stanza profonda (e anche L’impero del sogno, che, sì, ho scritto davvero in un paio di mesi); dopodiché ho lavorato negli ultimi due anni a questo: quindi si dice che ci sono voluti sette anni perché l’arco è dal 2012 al 2019, e sicuramente anche quei periodi senza toccare il testo sono serviti a “covarlo”, ma in realtà, contando solo il “tempo reale”, ai Fratelli ho lavorato quattro anni.

Chi ti legge conosce il tuo attaccamento alla tua terra d’origine: il Valdarno. Nei Fratelli Michelangelo Antonio abita a Vallombrosa-Saltino, mentre i figli provengono da città molto diverse dal microcosmo valdarnese da cui il padre li manda a chiamare. Quale significato hai assegnato a questi due immaginari urbani così diversi?

In questo libro, l’ha notato molto bene Chiara Fenoglio sul Corriere della Sera, ci sono un movimento centripeto e un movimento centrifugo. Il padre chiama a sé i figli, che arrivano dai quattro angoli del pianeta, e quindi abbiamo quattro nostos; nei flashback che raccontano le loro vite, invece, c’è un esodo, perché si narra anche il modo in cui ciascuno ha lasciato l’Italia. Quindi c’è prima un’esplosione e poi una riaggregazione. Circa il Valdarno, non è che ci sia troppo affezionato – come per Firenze il rapporto è più di amore-odio – ma nei miei romanzi, in un modo o nell’altro, finisco per tornare sempre dalle mie parti: è difficile, anche quando scrivo un libro pieno di ambientazioni esotiche come questo, che non ci sia un fulcro, un polo attrattore, nella mia terra d’origine. È una questione di conoscenza profonda, che non vale solo per me: lo si può vedere anche attraverso maestri come, che so, Philip Roth, il quale, pur avendo passato gran parte della sua vita a New York, nei suoi libri torna sempre a Newark, un luogo certamente meno interessante ma per lui fondamentale come punto di partenza. Dei luoghi che ti sono appartenuti, specialmente durante l’infanzia e l’adolescenza, tu hai una conoscenza più viscerale, e da lì è più facile piantare semi, fare delle innervature. Poi da lì puoi andare dove vuoi, perché un libro di narrativa si può spostare, può muoversi ovunque: la cosa importante è avere, prima, delle basi su cui sai di poterti appoggiare in modo sicuro, su cui puoi costruire come fossero fondamenta.

Non è la prima volta che “vado” narrativamente nelle montagne sopra il Valdarno: la Secchieta (sopra a Vallombrosa, N.d.R) è l’ambientazione di una scena importante degli Interessi in comune, mentre l’altro versante del Pratomagno compare in Muro di casse; ma Vallombrosa non l’avevo ancora sfruttata. È stato chiaro molto presto che doveva essere il luogo in cui il padre attirava i figli, sia perché era un luogo della mia infanzia, sia perché Vallombrosa ha in sé vari livelli simbolici: è una località che ha subito una quantità enorme di decadenze; verso il Mille-millecento era un polo fortissimo della cristianità, e i Vallombrosani, prima venire cooptati dagli Olivetani, erano un’ordine che aveva anche una certa potenza politica; la località è stata poi riscoperta dai romantici proprio per i suoi elementi medievali e per la sua particolare foresta (i monaci vallombrosani importavano semi da tutto il mondo e li portavano lì, così la foresta di Vallombrosa non è fatta di piante endemiche della Toscana: in basso, se scendi giù verso Pietrapiana, è pieno di castagni e aceri, ma se vai su nella foresta ci sono douglas, abeti bianchi, rossi, addirittura sequoie – e non molto tempo fa è stato scoperto l’albero più alto d’Italia, un abete douglas di Vallombrosa; diceva Bernhard che la Germania è un pezzo d’Asia misteriosamente emerso in mezzo all’Europa: ecco, potremmo dire che Vallombrosa è un pezzo di Germania misteriosamente emerso in mezzo alla Toscana); ci finì Milton, che scrisse una parte del Paradiso perduto al Paradisino, sopra l’abbazia, e ci passarono i romantici, da Byron a Shelley a tutti gli altri.

Dopodiché, nei primi del Novecento, Vallombrosa, a causa di quell’eco romantica e della notorietà internazionale così guadagnata, diventò il luogo di ritrovo del jet-set: la nobiltà e l’altissima borghesia andavano lì in villeggiatura, alla “stazione climatica”; il Saltino (il paesello sotto Vallombrosa, N.d.R.) sviluppò una ricettività spropositata che, ancorché per lo più fatta di edifici abbandonati, è ancora lì: abbiamo il Grand Hotel, l’Hotel Croce di Savoia, il Grand Hotel Acquabella, più altri alberghi più piccoli e colonie per l’infanzia pronte a ospitare centinaia di marmocchi ricchi, per tacere del Casinò e della miriade di ville e villette che ne punteggiano i dintorni. È la ricettività di un posto di vacanza che d’estate potrebbe fare migliaia di persone, ma quell’epoca d’oro durò pochissimo: dopo la Prima Guerra Mondiale, con l’annessione dell’Alto Adige, presero piede le Dolomiti e le Alpi e nessuno si filò più i mille metri di Vallombrosa.

Negli anni Ottanta fu tentato un piccolo rilancio turistico: venne creato un “centro polivalente”, citato brevemente nel libro; venne scavata una zona vicino a Cascina Nuova e creato un residence sullo stile dei posti in cui si scia, a Monte Lori venne avviato un altro edificio residenziale che non fu neanche finito… Ci fu, insomma, una speculazione edilizia che venne fatta vendendo l’idea che ci sarebbe stato un grande rilancio di Vallombrosa, rilancio impossibile perché la località non aveva nessuna delle attrattive che il moderno vacanziero cerca.

Quindi un luogo che nel tempo cerca di rinnovarsi così come il personaggio di Antonio Michelangelo cerca di rinnovarsi facendo, nell’arco di una vita, un sacco di lavori diversi.

Più un luogo decade, più ogni volta dice che si sta rinnovando: e questa, se vogliamo, è un po’ anche la storia di Antonio Michelangelo (sebbene, a differenza di Vallombrosa, la riscoperta dell’opera di Antonio Michelangelo è assolutamente reale), benché lui abbia una sua particolare complessità, sia per la vitalità luciferina che lo anima, sia perché la qualità dei suoi lavori d’artista non è mai chiarita. Ha scritto un libro che viene letto nelle scuole al pari del Sentiero dei nidi di ragno; ha realizzato La sultana, un film d’autore un po’ scollacciato di cui i figli quasi si vergognano, uno di quelli che si trova nelle ceste dei DVD a 9.99, con una protagonista molto avvenente, Francesca Lavier (la madre di Louis, N.d.R.), un’attrice che ha fatto solo quel film – e che forse, dice lei, ha detto no ad altri registi perché aspettava di fare il secondo con Antonio Michelangelo. Si capisce che ogni personaggio racconta la sua verità: non si sa se davvero Antonio ha rovinato la carriera della Lavier o se lei era già una miracolata a essere stata attrice protagonista in un film con una buona produzione. Ci sono poi queste incisioni di Antonio Michelangelo che pure stanno in una fase di piena riscoperta, tant’è che l’avvio di Cristiana Michelangelo innesca il tema del confronto generazionale: la chiama una gallerista piuttosto prestigiosa di Venezia a cui lei stava “raspando alla porta” da tempo; spera abbia finalmente preso in considerazione il suo portfolio, e quella invece le chiede di fare una prefazione al catalogo delle incisioni del padre, di cui intende organizzare una mostra…

Dal confronto generazionale mi riallaccio al tempo in cui è ambientato il romanzo: l’incontro con Antonio Michelangelo avviene nel 2007, anno-spartiacque, rimando a un tempo pre-crisi che forse ancora conservava un po’ di fiducia verso il futuro. Nel contempo, ogni figlio ripercorre il proprio passato radicato negli anni Ottanta e Novanta, che è anche il tuo passato. Ho letto I Fratelli Michelangelo anche come resoconto di una generazione che vuole fare i conti con una parte di vita già trascorsa, ma le cui ambizioni esistenziali permangono in potenza, in attesa di realizzarsi pienamente. Sei d’accordo?

La questione dell’anno su cui si svolge il “presente” del romanzo è nata per caso, ma ho fatto subito di necessità virtù. Non scrivo mai di cose recentissime: nei miei libri una distanza almeno di una decina d’anni è inevitabile, ho i miei tempi di elaborazione. Avendo già affrontato gli anni Ottanta e Novanta, nel frattempo sono cresciuto o invecchiato e mi sono sentito pronto per lavorare sugli anni Zero. Dovendo sceglierne uno esatto, il 2007 si prestava bene anzitutto per ragioni legate alla biografia di Antonio Michelangelo; è stato poi chiaro che quell’anno era perfetto perché, come tu giustamente dici, era l’ultimo anno prima della crisi e anche un anno di transizione tecnologica: c’erano già dei proto-social come MySpace, i primi telefonini col WAP coi quali potevi faticosamente andare su Internet – insomma, avevamo già un piede nel mondo successivo senza esserci ancora. Era anche un anno buono per la cesura generazionale di cui si parla nel romanzo – ma non si tratta di una cesura “a uno scalino”, perché ce ne sono due. Antonio Michelangelo è del 1930, ha già una sua prima famiglia con Rosa e la figlia Aurelia, nata nel ’55; quindi, se vogliamo, Antonio avrebbe potuto avere dei figli che hanno fatto il Sessantotto e che avrebbero così distrutto, almeno simbolicamente, il padre, mentre gli altri fratelli Michelangelo – Louis è del ’70, fino a Enrico che è dell’81 – sono quelli che, se non fossero figli di un padre piuttosto anziano, sarebbero stati figli dei baby-boomers, e quindi appartenenti alla generazione che il padre non lo ha proprio ucciso.

Poi, certo, è un libro sulle ambizioni, e le vite dei figli sono anche pervase da una costante tensione economica. È per lo più questione di realismo: pensa a quando per Personaggi precari mi affibbiavano etichette tipo «il cantore del precariato»… Non c’era nulla di programmatico, io e tutti i miei amici eravamo precari, sarebbe stato innaturale scrivere di gente col posto fisso che sorseggia vini costosissimi… Ugualmente, una caratteristica sociale dominante oggi è la difficoltà ad avere un’indipendenza finanziaria: devi lavorare tantissimo per mantenerla, e molto spesso chi ce la fa ha comunque dietro dei supporti, come, che so, una casa della nonna dove abitare, e a quel punto anche con un reddito più piccolo, senza dover pagare l’affitto, riesci a cavartela. Questo ha un risvolto paradossale: abbiamo una generazione che, grazie a un ’68 che neanche ha vissuto, vive in un contesto di esplosione della famiglia, ma è comunque costretta a riallacciarsi al cordone ombelicale per ragioni economiche. Il potere d’acquisto dei singoli è effettivamente mutato, e Antonio Michelangelo rappresenta, a volte anche in modo un po’ caricaturale, colui che dal Novecento ha avuto tutto: ha avuto una carriera, anzi tre; ha avuto la possibilità di farsi due famiglie, anzi quattro se conti pure quelle clandestine; ha potuto pure affermarsi nelle arti. L’unica cosa che gli è mancata è stata l’affermazione spirituale: lui era troppo intelligente, troppo “lettore” per non capire che non c’era anche una dimensione ulteriore oltre a quella dell’intelletto; l’ha sempre cercata ma non l’ha mai trovata perché forse è un uomo troppo novecentesco. È figlio del materialismo, e quel passaggio lì gli sfugge, tant’è che sotto sotto lo sospetta in Rudra, e glielo invidia.

Le storie dei fratelli concorrono a creare l’immaginario di un romanzo-mondo, e sono parte di te: come ci hai lavorato?

Ho montato la storia dei fratelli scegliendo un approccio non alternato; ognuno ha un blocco intero: il modello, insomma, invece che quello di Faulkner, usato in altri libri, è quello di Proust (poi ripreso, tra gli altri, da Bolaño in 2666). Ci sono vari modi per leggere schematicamente la posizione dei fratelli nel libro. C’è un movimento di avvicinamento al padre: da Enrico che non l’ha mai conosciuto, a Louis, il figlio adulterino disconosciuto, a Cristiana che ha rotto con lui, fino Rudra che se n’è andato presto ma che apparentemente non ha particolari tensioni. C’è poi un movimento di allungamento dello spazio del narrato: con i flashback racconto le vite di tutti, ma nei fatti racconto gli ultimi giorni di Enrico, gli ultimi mesi di Louis, gli ultimi anni di Cristiana e tutta la vita di Rudra. Ci sono poi delle “coppie”: un’antitesi tra i fratelli rinunciatari e quelli che ancora insistono: si capisce che Enrico ha messo da parte le ambizioni letterarie scegliendo la tranquillità dell’insegnamento; Rudra idem, pur essendo un ex-campioncino di karate e biologo ha scelto di fare il maestro d’asilo e di starsene tranquillo. Dall’altro lato, ci sono Cristiana e Louis che insistono, lei per sfondare nell’arte contemporanea e lui per il volgar denaro. Allo stesso modo, due personaggi, Enrico e Cristiana, sono scritti più a flusso di coscienza, mentre Louis e Rudra si esprimono con una voce narrante meno “interna” (quest’ultimo, che riprende la forma dei racconti sapienziali, usa addirittura la seconda persona).

Infatti mi ha colpito molto l’uso del tu per Rudra: non l’avevi ancora usata fino a quel momento, e la usi per l’ultimo figlio che, secondo il padre, è l’unico a custodire delle verità a cui solo lui ha accesso. Da qui mi è venuta in mente l’idea di un personaggio nato dalla filosofia orientale su cui si fonda il romanzo, e la scelta del tu come espediente formale perfetto per impedire al lettore di entrare del tutto nell’interiorità del personaggio, che rimane fino alla fine avvolto nel mistero. Cosa ne pensi?

L’hai già fatta perfettamente tu, l’analisi. Il modello esiste da un punto di vista stilistico-formale anche nel Libro Tibetano dei Morti, dove si dà del tu al lettore: «Tu, figlio di nobile famiglia, entri adesso in un campo di esistenza intermedia…». Quindi c’è una linea sapienziale della filosofia orientale in cui ci si rivolge al “tu”, e sono dei veri e propri “manuali” per l’Oltremondo, tant’è che Leary usò il Bardo Thodol come schema per la gestione rituale dell’esperienza psichedelica. Ma non è solo questo: qualche giorno fa sono rimasto stupito, ma anche convinto, nel leggere la recensione di Carlo Mazza Galanti su Esquire, che ha interpretato quel “tu” come una scelta ritmica: dopo aver usato tre diverse prime persone, avrei inconsciamente svoltato sulla seconda per avere uno scarto percettivo e un rilancio ritmico. E poi c’è una ragione meta-testuale: leggendo il libro da questo punto di vista – ci sono degli indizi negli epiloghi, ma anche altrove – si può pensare che questo romanzo sia stato scritto da Enrico Michelangelo. Ora, Enrico, dopo una nottata in cui ne sono accadute di ogni genere, e subito prima dell’incontro col padre, guarda dalla finestra e vede Rudra che, nonostante tutto, si sta allenando come ogni mattina, e pensa «uno così, io non potrò mai capirlo». Per cui Enrico, mentre riesce a immedesimarsi in Louis e Cristiana, non può farlo con Rudra e usa il “tu. Volendo, poi, c’è una lettura metatestuale ancor più diabolica: quella secondo cui il libro sarebbe stato scritto da un Antonio Michelangelo che si appropria della voce di Enrico; in questo caso utilizzerebbe il “tu perché comunque, rispetto a Rudra, figlio che non ha mai capito fino in fondo, gli è permesso solo un approccio dialogico, quasi una “lettera al figlio”, e non di immedesimazione.

Per quanto riguarda la scrittura, hai fatto un lavorone, ed è evidente. Nelle parti in cui i personaggi sono tutti insieme io ci ho visto, molto banalmente, Gita al faro, perché c’è quest’occhio che fa avanti e indietro dall’uno all’altro personaggio come nel romanzo di Virginia Woolf. A livello stilistico ci sono altre influenze importanti?

Ce ne sono tante, Gita al faro sicuramente; per me Virgina Woolf e tutto il modernismo sono cruciali: Faulkner c’è sempre, anche se stavolta non ho usato le sue strutture, come c’è sempre Joyce. Un libro importante per I fratelli Michelangelo è anche Niels Lyhne di Jacobsen, peraltro citato un paio di volte nel testo, un libro relativamente poco letto da noi ma che fu citato da Mann come la sua principale influenza per La montagna incantata. Per alcuni elementi che si ritrovano nei sogni e nei racconti di Antonio Michelangelo, c’è Petrolio di Pasolini, di cui mi ha sempre affascinato la dimensione esoterica. Tornando a Mann, più che I Buddenbrook, che sono già stati citati da tanti, essendo una saga familiare, c’è il Doktor Faustus: per alcune soluzioni della parte di Rudra, e perché sotto sotto è un ibrido, anche se non lo sembra (è di fatto anche un saggio sulla dodecafonia e su Schönberg, che infatti non gradì troppo) e la parte di Cristiana è, se vogliamo ,anche un po’ un saggio sull’arte contemporanea.

E invece parlando di film, cosa hai visto per scrivere I fratelli Michelangelo?

Sicuramente per quanto riguarda Antonio Michelangelo è stato decisivo : l’idea di qualcuno che fa un bilancio, con le persone della sua vita che si accumulano mischiandosi fra realtà, fantasia, proiezioni e sue interpretazioni (non di rado in malafede) è molto presente. Se ci pensi, anche il Mastroianni di è un bel tipo: piega la realtà a modo suo, si autogiustifica… Poi c’è Rocco e i suoi fratelli, dove abbiamo cinque fratelli ognuno col suo punto di vista, senza contare lo stretto rapporto Visconti-Mann. Per quanto riguarda Anderson, di cui Mondadori ha citato I Tenenbaum in bandella, citerei più The Darjeeling Limited. Vale la pena menzionare anche Il grande freddo di Lawrence Kasdan, in cui non troviamo una famiglia ma degli amici, ragazzi che erano amici a vent’anni e si ritrovano quindici anni dopo. Sul finale, poi (***SPOILER ALERT***), c’è anche il tema girardiano del sacrificio: Antonio Michelangelo si confronta con dei figli che non sono “strutturalmente” in grado di uccidere il padre, per quanto lui quasi lo chieda. Quando ero ancora all’inizio dei lavori, immaginavo che il libro dovesse finire come una tragedia greca, senza compromessi, ma poi, vista epoca e luogo in cui si svolge, era chiaro che la virata verso la tragicommedia sarebbe stata inevitabile. Per quanto riguarda, appunto, il tema del sacrificio, lì il modello cinematografico è certamente John Milius: sia il Milius sceneggiatore di Apocalypse Now, sia il Milius regista di Conan il barbaro (e quindi, in entrambi i casi, il Milius lettore di Frazer e del suo Ramo d’oro). I due film sono apparentemente molto diversi, ma identici nelle conclusioni: in entrambi c’è un “re-dio”, nel primo caso il colonnello Kurtz, nel secondo Thulsa Doom, che di fatto esige il proprio sacrificio rituale e attende che un figlio ideale – Willard o Conan – venga a effettuarlo. Del resto lo stesso Antonio Michelangelo dice che «un sacrificio si fa sempre in due», e allora possiamo metterci anche Jesus Christ Superstar, che ripropone al cinema la lettura dei Vangeli secondo cui Giuda non sarebbe stato un essere ignobile, bensì l’unico apostolo dotato del coraggio di farsi carico di “tradire” il Messia, cosicché il re-dio potesse essere realmente sacrificato, di fatto qualificandosi.

Enrico cova il sogno di scrivere, ma è talmente rassegnato che nemmeno ci prova. Cristiana invece vuole sfondare nel mondo dell’arte contemporanea: ci prova davvero, ma dopo un breve momento di notorietà ripiomba nell’anonimato ed entra in crisi. La realtà artistica odierna sembra elitaria, respingente: cosa volevi rappresentare con questi due personaggi?

Ci sono parecchie differenze tra i due personaggi. Il lettore intuisce che Enrico ha o ha avuto delle ambizioni letterarie: a un certo punto va in una libreria-caffé a Roma e ci sono due scrittori o aspiranti tali che scherzano un po’ con lui, e si capisce che lui qualche volta è andato lì a scrivere con loro. Enrico un po’ li disprezza perché sono tutte le sere lì a perder tempo, e un po’ li ammira perché si sbattono davvero per una loro ambizione. «Fatti un bel romanzo borghese!», gli dicono. E lui poco dopo pensa «Meglio altro!», rivelando quindi di averci almeno pensato. Però lui è uno che ha abbandonato le ambizioni sul nascere, che forse non le ha mai veramente coltivate. Curiosamente, però, lui ha una “vera” formazione letteraria: è laureato in Lettere e ha fatto pure un dottorato. Mentre Cristiana, che crede tantissimo nella possibilità di sfondare nell’arte, viene da una serie di fallimenti universitari: prima iscritta a Medicina, poi a Scienze Politiche e Giurisprudenza; le ha provate tutte, sempre rimbalzando. Un giorno entra per caso all’Accademia, si ritrova a una lezione e finisce per tornarci, di fatto frequentandola clandestinamente. Qual è il punto d’unione? Una cosa che mi interessava, al di là della mia passione per l’arte, era la somiglianza del mondo dell’arte contemporanea con quello della letteratura: quello dell’arte però è ancora più chiuso e ambìto perché ci girano molti più soldi e ha, oggi, un’aura ben più affascinante. Quindi mi serviva per raccontare anche cose che avevo visto nel mondo dei libri, ma in una versione più estremizzata. L’estremizzazione deriva anche da fattori “tecnici”, nel senso che – semplificando – nel mondo dell’editoria esistono almeno tre “agenzie di produzione di valore”: gli editori, il pubblico e la critica. In qualche modo, se tu hai l’approvazione di almeno una di esse, prima o poi una svolta la trovi. Nel mondo dell’arte contemporanea, invece, queste agenzie (che sono anche i “guardiani della soglia”), sono concentrate in un numero ridotto di persone, sovente sovrapposte, e per di più a loro volta concentrate in specifiche città. Se vuoi fare arte contemporanea, devi andare a New York o a Londra; già Berlino e Parigi sono considerate città sì buone ma di seconda fascia. È un mondo chiuso, in cui un giovane privo di aggangi può entrare solo attraverso le residenze d’artista – ad esempio, Cristiana vuole entrare nella residenza del Palais de Tokyo – o riuscendo a farsi rappresentare da una galleria importante. Se “entri”, hai la possibilità di essere sparato verso l’alto anche a una rapidità incredibile; se non entri, potresti stare a sbattere su quel muro di gomma per tutta la vita.

Ti faccio la stessa domanda che si fa Enrico verso la fine del romanzo, quando si rende conto di essere l’unico dei presenti a cogliere una citazione da Balzac usata dal padre: quand’è che la letteratura ha smesso di essere un codice condiviso?

La citazione è importante; è tratta da un libro di Balzac considerato minore ma molto bello, che a sua volta è stato un’influenza determinante per I fratelli Michelangelo, Louis Lambert. Parla di un bambino prodigio che finisce in un seminario dove la sua genialità viene soffocata… Quand’è successa questa cosa di cui mi chiedi? Non lo so; di certo io sono cresciuto come persona e come autore in un mondo che era già così, e solo attraverso i libri ho compreso come e quanto prima potesse essere diverso – come l’alta letteratura avesse un altro ruolo e un altro peso nella società. Se tu oggi vuoi farti capire a una conferenza, anche se sei a un festival letterario, devi far riferimento a scene di film, non certo a scene di libri. Questo non perché i lettori non ci siano, ma perché nessuno ha sotto controllo tutto il campo dei classici, come poteva capitare una volta in una platea selezionata. Forse ciò deriva anche dalla moltiplicazione dei libri: magari fino alla metà del Novecento c’era un canone più ridotto e tu ti riferivi a quello. Oggi con l’esplosione delle lingue e delle possibilità delle varie letterature nazionali ci sta che uno abbia letto tutto Roth e non un libro di Cortázar; o che uno abbia letto tanta buona letteratura novecentesca e che non conosca l’Ottocento; o che abbia letto l’Ottocento ma Milton o Rabelais non gli dicano niente. C’entra però anche una perdita di status della letteratura all’interno di quello che siamo in quanto esseri sociali. Una volta, già per la nobiltà ma anche per la borghesia, una biblioteca importante era la base del vivere civile, oltre che, potremmo dire più cinicamente, dell’arredo di casa. La collana dei Meridiani nasce del resto proprio per essere venduta all’alta borghesia: medici e notai e “capitani d’industria” che si facevano la libreria a parete con quei bei classiconi. Si dava comunque un valore a quegli oggetti. Oggi , per quanto il libro abbia ancora una sua aura, questa cosa è per più di un verso evaporata, e fa tremare le gambe: la letteratura è diventata una sottocultura.

Nei Fratelli Michelangelo ci sono rimandi a ciò che hai scritto in precedenza; nel contempo è chiaro che questo romanzo sia diverso dal resto della tua produzione: hai sancito un nuovo inizio?

Sì, non so se questo libro sarà come Gli interessi in comune, che dai protagonisti ha generato storie su storie e addirittura interi romanzi (tra i protagonisti di Muro di casse, La stanza profonda e L’impero del sogno ci sono Iacopo Gori, Filippo Paridelli e Federico Melani che già figuravano nel gruppo degli Interessi in comune, N.d.R.). Di sicuro è un libro che si stacca dal gruppo. Il romanzo a esso precedente, L’impero del sogno, per quanto minore, ha una sua importanza nella mia produzione perché metteva a posto l’ultimo pezzo di un puzzle: oltre a riprendere il personaggio del Melani degli Interessi in comune, collegava la mia produzione realistica a quella fantastica, e chiudeva quindi tutto un percorso. In questo libro, invece, il collegamento col mio “Extended Universe”, come è stato chiamato, esiste, ma solo a livello di piccoli addentellati. Ad esempio, nella Stanza profonda, quando il padre vuole provare i giochi di ruolo ma non vuole farlo con gli adulti e chiama dei bambini, tra di essi figura una Cristiana Michelangelo di anni nove, quindi il seme di Cristiana è già lì; oppure Parvati, che nei Fratelli Michelangelo avrà una trentina d’anni ed è la spietata proprietaria di un villaggio turistico a Bali, compare anche negli Interessi in comune, come la ricca ragazza proprietaria di uno di questi borghi nel Chianti in cui si fanno feste stile Io ballo da sola. E altri ce ne sono qua e là, ma sono tutti collegamenti minori attraverso, appunto, comprimari; di fatto, tutti i protagonisti dei Fratelli Michelangelo sono personaggi nuovi.

Un altro collegamento con Muro di casse è la scena in cui Enrico deve salire a Vallombrosa con la macchina e incontra certi ragazzi che vogliono andare a un rave lì vicino.

Sì, quello è un ammicco a Muro di casse ma anche qualcosa di più. Tutti e quattro i protagonisti dei Fratelli, alla fine della loro parte, hanno una sorta di transizione in un campo liminale, che sta in qualche modo fuori della storia: Enrico incontra i raver, espressione più pura della fine della storia, con la loro utopia temporanea, nel “qui e ora”; Cristiana – a proposito del decadimento del ruolo della letteratura! – incontra una poetessa che legge dei versi di Zanzotto a un reading estivo, ma il pubblico la insulta; Rudra ha un momento in cui i suoi ricordi d’infanzia quasi si sovrappongono fattualmente a quello che sta vivendo, come in una visione; Louis, infine, lo troviamo nel non-luogo aeroportuale. Sono questi i quattro momenti di avvicinamento a uno spazio della non-storia, alla dimensione forse addirittura allegorica del finale. Francesco Pecoraro, durante la presentazione romana, ha visto nella scena di Enrico al rave anche una presa di distanza da Muro di casse e dalla stagione degli ibridi, per arrivare a un tipo diverso di romanzo e anche a un distaccamento dall’elemento autobiografico verso la pura fiction letteraria: è una lettura a cui non avevo pensato ma che mi sento di rivendicare.

Intervista a cura di Angela Marino


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 La foto in B/N è di Carlo Zei, mentre quella a colori di Vito Maria Grattacaso.

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