Luci e ombre di un campione: la tragedia di Kid Pambelé

L’oro e l’oscurità, Alberto Salcedo Ramos
(Alessandro Polidoro Editore, 2019 – trad. Alberto Bile)

coverPremessa: pur non essendo né una persona sportiva, né un’appassionata di sport, i romanzi, i documentari, i film dedicati alla vita dei grandi atleti mi affascinano terribilmente. Che sia Formula 1, ginnastica artistica, pugilato, motociclismo, calcio, ripercorrere le tappe della carriera di un campione mi entusiasma. E mi ritrovo seduta sul divano, lo sguardo fisso, ipnotizzata.
La scelta di leggere L’oro e l’oscurità, un’opera dedicata a un pugile colombiano – Kid Pambelé – che non avevo mai sentito nominare, deriva proprio dal desiderio di immergermi nella vita di un uomo eccezionale, di rubarne i sacrifici, i trionfi, il dramma.

Ma chi è Kid Pambelé? Un ragazzino poverissimo, il cui padre è scappato in Venezuela; e poi un giovane lustrascarpe, venditore di sigarette di contrabbando, che decide di diventare pugile per sfuggire alla fame, alla povertà, alla sofferenza. Agli esordi, nonostante le indiscusse qualità fisiche – mani enormi, pugni micidiali –, è un pugile mediocre, noioso. Non entusiasma il pubblico, e la sua carriera rischia di finire prima ancora di cominciare.

Poi, all’improvviso, la trasformazione. Pambelé rivela le sue potenzialità: la velocità, la precisione, il jab – apprendo da Wikipedia che si tratta di un colpo diretto sferrato in linea obliqua, ma dai filmati mi sembra piuttosto una fionda micidiale, un elastico, una molla che devasta il viso dell’avversario, e un po’ capisco l’esaltazione dei colombiani.
Il 28 settembre 1972 Pambelé affronta Peppermint Frazer, il campione del mondo, e gli suona un concerto di boxe. Così, quasi per caso, Pambelé diventa il primo pugile – macché, il primo atleta – colombiano a raggiungere la vetta, conquistando il titolo di campione del mondo (pesi welter junior) e mantenendolo fino al 1980.

Comincerà poi una parabola discendente fatta di abuso di droga e alcol, donne, violenza, debiti, fino al punto più basso – la sconfitta, le crisi nervose, le cliniche psichiatriche, le cure.
Pambelé perde tutto. E ora è un vecchio attaccabrighe, l’ombra di sé stesso.

Non parliamo di un romanzo tradizionale. È un’inchiesta: per due anni Salcedo Ramos ha intervistato l’allenatore di Pambelé, l’agente di Pambelé, le donne di Pambelé, i figli di Pambelé, persino le vittime delle aggressioni di Pambelé, ricostruendo le tappe dell’ascesa e della caduta – disastrosa, continua, inarrestabile – del pugile.
Come un predatore che gira attorno alla preda, stringendola in cerchi sempre più stretti, Salcedo Ramos si avvicina a Pambelé per sferrare l’attacco decisivo. Ma sempre, all’ultimo, Pambelé schiva le domande, e la verità sfugge un po’ più in là, fino all’illuminazione finale, che rovescia la prospettiva dell’intero libro, un’epifania che scuote l’autore e il lettore.

L’oro e l’oscurità ha inoltre il fascino della leggenda. Date, titoli di giornale e interviste si alternano al discorso indiretto libero, che riproduce anche graficamente le sonorità del parlato (un esempio su tutti: il colombiano Antonio Cervantes Reyes, meglio noto nel mondo della boxe come Kid Pambeleeeeeeeeee! [pag. 45]). All’improvviso le frasi si ingarbugliano, si eccitano, esplodono in grida e corse, inseguono a fatica la rapidità di Pambelé e del suo mondo.

Insomma, L’oro e l’oscurità è un’opera di non-fiction che, un po’ per merito della storia stessa, un po’ per lo stile affabulatorio di Salcedo Ramos, avvince e scuote il lettore. Personalmente ho apprezzato l’imparzialità dell’autore, che non esprime alcun giudizio: si limita a raccogliere gli indizi, e a presentarli.
Dopotutto, non è un processo: è una tragedia.

 

Sonia Aggio

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