Lo strano canone italiano: una lotta di classe tra critici e lettori

Perché è così difficile individuare dei “giganti” tra gli scrittori italiani viventi?
La letteratura italiana contemporanea è davvero inferiore a quella del passato?

Di recente sono capitato a parlare con una studentessa argentina che si trova in Italia per approfondire la conoscenza della nostra letteratura. Mi ha raccontato che a Buenos Aires aveva studiato i grandi del Novecento, ma l’arcipelago della letteratura italiana presente le era del tutto ignoto, e dunque mi ha chiesto dei consigli di lettura.
Quali autori potevo suggerire a una ragazza straniera che non avesse idea dello stato attuale della letteratura italiana? Ci volevano pochi nomi autorevoli che potessero essere veramente rappresentativi; delle opere che fossero ritenute dei classici contemporanei. Avevo una responsabilità e mi sono scoperto spiazzato: risponderle svelava una difficoltà inaspettata. 

Nei giorni successivi ho rimuginato sull’accaduto. Perché è così difficile individuare un nome incontrovertibile, un’opera su cui tutti si trovino d’accordo?
Se fossi vissuto negli anni ’70, avrei avuto non una, ma numerose risposte possibili: Moravia… Calvino… Montale… Autori che non hanno atteso decenni per essere ritenuti giganti: era evidente già da allora. Lo dicevano i critici e le vendite.
Perché oggi non è così? Perché siamo orfani di monumenti letterari?

Di primo acchito saremmo portati a dedurne che gli scrittori di oggi siano qualitativamente inferiori a quelli del passato, come se avessimo a che fare ora con una partita di merce andata a male, come se ci trovassimo a bere il vino aspro di una pessima annata. Ma è davvero così? C’è stata effettivamente un’involuzione della qualità delle opere o il cambiamento è avvenuto nel sistema che soggiace alla loro ricezione?

Il mio parere è che una spiegazione sia da individuare in una caratteristica del campo letterario italiano: una frattura abbastanza profonda che sussiste tra l’istituto della critica e la platea dei lettori.
La difficoltà che ho riscontrato nel rispondere alla studentessa argentina derivava dalla mancata individuazione d’una singola opera che sia giudicata con lo stesso entusiasmo dalla critica e dai lettori allo stesso tempo. La convergenza tra santificazione istituzionale e ovazione pubblica determinano la classicizzazione di un autore.

Il caso di Elena Ferrante è emblematico di questa frattura: più la Ferrante fever si diffonde endemicamente tra i lettori di tutto il mondo, e più le agenzie della cultura nostrane rivolgono un certo scetticismo nei confronti dei suoi romanzi. Nel 1974 era accaduta medesima evenienza a Elsa Morante, proprio la scrittrice più apprezzata da Ferrante, allorché La Storia aveva subito lo stesso “destino ingrato” dell’Amica Geniale: quello di “un successo infausto”, com’ebbe a definirlo Garboli[1].  L’opera fu accolta in libreria con un trionfo di vendite imponente tanto quanto inatteso, e tra i critici con sospetto e scetticismo, al punto che Garboli ha parlato della Storia come di “un romanzo criticamente abrogato”, e di “una caccia alla fattucchiera” da parte degli intellettuali nei confronti di Morante[2] – molto similmente a come avviene oggi con Ferrante.

Adesso nessuno parlerebbe più della Storia come di un ‘romanzo popolare’ in senso dispregiativo. Si tratta a tutti gli effetti di un classico. E suppongo che lo stesso avverrà per l’Amica geniale. Ma i tempi non sono ancora maturi. Dico di più: se Magris viene considerato la candidatura più robusta per un Nobel italiano, il mio parere è che la Ferrante – per la logica dell’Accademia di Svezia – abbia possibilità superiori. Qualora l’enigmatica scrittrice dovesse venir premiata a Stoccolma, succederebbe esattamente quello che è accaduto nel 1997 con il popolare Dario Fo. La sua vittoria fu ritenuta a vario titolo uno scandalo, una vergogna, un’assurda estrosità, e fu fortemente criticata da gran parte del sistema culturale e letterario italiano.

Cattura
Dal Corriere della Sera del 10 ottobre 1997

Gli esempi di Fo, Ferrante e Morante dimostrano come la spaccatura tra il patriziato della critica e la plebe dei lettori sia una tendenza italiana di lungo percorso. Credo che oggi si sia solamente accentuata.
Attualmente la critica letteraria incensa e glorifica nomi che si limitano a circolare tra addetti ai lavori e lettori fortissimi: Siti, Mari, Busi, Tuena, Frasca, Trevi, Moresco, Pecoraro et alii. Fanno eccezione forse i primi due, che riescono a trovare alcuni sconfinamenti in un pubblico un po’ più vasto. Caso particolare, invece, è quello del noto Busi, che, nonostante le discutibili apparizioni televisive a pregiudicare la sua persona dinnanzi ai lettori, sta ricevendo una rivalutazione positivissima da parte della critica[3].

Degli autori più apprezzati e letti dal pubblico, invece, non c’è posto nell’Olimpo letterario, come ad una festa esclusiva a cui si accede con un invito rigorosamente selettivo: non parlo di autori tipicamente commerciali (che so, i Luca Bianchini e Fabio Volo), ma già scrittori con un background diverso, come Ammaniti o Murgia, Ferrante o Pennacchi.
Anche Eco e Camilleri, pur ritenuti fino a qualche anno fa i nomi più gloriosi tra i letterati viventi, hanno versato un obolo piuttosto caro in termini di giudizio critico per la vetta nelle classifiche d’acquisto. Vale soprattutto per Camilleri, “l’onesto e ovvio Camilleri” nell’opinione giustappunto di un critico[4]Il successo si dimostra ancora infausto. Un problema che Magris, accademico prima ancora che narratore, non conosce; e forse per questo si avvicina più di tutti alla figura del “gigante” e del “classico”?

Secondo un altro critico letterario, Eco e Camilleri non sono nulla di più di Paolo Giordano, e dice al proposito: “Ma via! Il primo punto su cui la critica non può derogare è questo: scambiare per letteratura vera oggetti prodotti per confermare le attese del pubblico più vasto possibile e più di bocca buona […] Un critico letterario che si suppone abbia davanti alla scrivania i Grandi Classici del Passato e del Novecento come fa ad accontentarsi di roba così a buon mercato?”[5]
Il senso sembra essere proprio questo: una totale avversione da parte della critica verso ciò che viene apprezzato dal pubblico, e un ostinato penchant per ciò che possa essere compreso dal numero più esiguo di persone (proprio cattedratici, italianisti, filologi, intellettuali). Il successo e la popolarità sono uno stigma, sono come quel marchio che Dio aveva impresso sulla fronte di Caino affinché chiunque, incontrandolo, lo disprezzasse; la nicchia, l’esclusività sono invece la chiave per la terra di Avila, sono gloria in excelsis Deo.

Tutto questo ha a che far poco con la sola letteratura: si tratta di un rapporto di forza tra critici e lettori, di una dialettica di classe, di una lotta per il potere – il potere di attribuire, definire e riconoscere il valore di un’opera e di un autore[6].  Bourdieu parla di un’opposizione tra «arte borghese» e «arte popolare», vale a dire una tensione tra due diverse legittimazioni: quella tra pari (il riconoscimento orizzontale dei critici) e quella del pubblico (il riconoscimento dal basso attraverso il successo commerciale)[7]. Il che si traduce, per l’appunto, in un antagonismo tra la borghesia dei critici e il proletariato dei lettori. Non uso questi termini come giudizio di valore; essi rispondono alla posizione che lettori e critici ricoprono in una gerarchia di classe sostanziata non dal capitale economico bensì dal capitale culturale.

Il presupposto sociologico di questo discorso è il seguente: i gusti (come anche quelli libreschi) sono manifestazione dell’habitus, vale a dire che sono espressione della posizione di un individuo o di un gruppo nella società, e, come tale, i diversi gusti rispondono all’esigenza delle classi sociali di distinguersi le une dalle altre[8]. Traslando il concetto al campo letterario e della produzione culturale, la diversa percezione di “giganti” tra critici e lettori risponde esattamente al bisogno e alla volontà dei primi di distinguersi dai secondi. Le istituzioni della cultura operano così una rivendicazione di status secondo dinamiche di potere nei confronti del basso ceto dei lettori. Infatti, in riferimento al capitale culturale, abbiamo detto, la critica equivale alla borghesia, dunque a un’élite, e come tale ha una posizione di prestigio e potere da dover preservare rispetto alle classi subalterne.

L’ostracismo messo in atto nei confronti di autori popolari non è l’esclusiva e pura espressione di un giudizio artistico, ma altresì il tentativo di delegittimare il “popolo” quale agente di definizione di valore. La critica reclama per sé soltanto il potere di attribuire etichette valoriali e rivendica la propria necessaria mediazione tra i lettori e le opere. Si tratta di un istinto di conservazione.
E qui torna prezioso l’esempio della Storia di Morante. Il romanzo, ha evidenziato Garboli, fu ritenuto “sospetto” dalla critica perché – esattamente come l’Amica geniale, diremmo oggi, per recuperare il parallelismo precedente – “aveva scavalcato le mediazioni intellettuali e stabilito un filo diretto […] con la gente”: in questa misura, risultava “pericoloso” e facente “concorrenza sleale” nei confronti “dell’establishment”, tanto politico quanto culturale[9]. Dunque, dalle parole di un critico come Garboli, emerge che aggirare la mediazione della critica tra il pubblico e le opere risulta un’azione eversiva nei confronti della critica stessa.

Ciò che abbiamo illustrato sin qui si ritiene essere una tendenza che è propria del rapporto naturalmente antagonistico tra lettori e critici. Tuttavia, l’opinione di chi scrive è che nel tempo presente, in Italia, tale tendenza abbia subìto un inasprimento di cui è impossibile qui definire le cause complete. Probabilmente le ragioni sono da individuare nell’anti-elitismo e nella tendenza alla professionalizzazione dei dilettanti che riguarda generalmente tutta la società occidentale. Come avevo scritto trasversalmente in un articolo dal titolo Meglio un imbianchino di Le Corbusier, il critico di professione è minacciato oggi più che mai da una serie di iniziative che tendono a dare autorevolezza all’opinione di chi manca di esperienza e formazione (anche le recensioni sui siti di e-commerce letterari, anche la diffusione dei lit-blog che fa sbiadire la separazione prima netta tra chi si limita a leggere i libri per piacere e chi li giudica).

Questo fattore scava ancor più in profondità nel solco che separa critici e lettori, e come mantice soffia e ingrossa le fiamme della tensione sociale tra le due fazioni: rilega i primi ulteriormente ai margini del campo letterario, e li costringe a prendere posizioni sempre più nette per rivendicare il proprio status sotto assedio. Il risultato di tale tensione è un problema a stabilire (o riconoscere) uno o più opere e autori viventi da classicizzare (con il rischio di perdersi per strada dei grandi scrittori solo perché hanno avuto la sfortuna di inciampare in un “successo infausto”).
I lettori hanno bisogno della critica, e nondimeno la critica ha bisogno dei lettori. Una radicalizzazione non giova a nessuno, soprattutto non giova al sistema letterario e della produzione culturale italiano.

La tensione tra lettori e critici non è l’unica variabile a determinare l’assenza di giganti. In generale il nostro rapporto con i classici, come suggerisce il teorico della letteratura Hans U. Gumbrecht in una recente opera, è cambiato e sta cambiando[10], prendendo delle traiettorie ancora non del tutto evidenti.
Più nello specifico c’è un problema politico: le istituzioni non fanno nulla per salvaguardare il prestigio della cultura e dei suoi agenti, disinteressandosi completamente ad essi (la logica neoliberista che eccede la sfera economica). Di conseguenza il sistema della critica e gli autori da essa apprezzati vengono isolati ancor più. Tale disinteresse istituzionale contribuisce a incentivare la sfiducia e il sospetto anti-elitistico del pubblico di lettori per ciò che passa il filtro della critica.

E c’è anche un altro problema socioculturale, diffuso generalmente in tutta la società italiana: la resistenza ad accettare la santificazione laica di uno scrittore prossimo a noi e vivente, la sua ascesa all’Olimpo letterario, come per una certa avversione, intolleranza, malevolenza nei confronti di chi riesce a scavalcare l’ordinario (si pensi, se non ancora a Fo, alle perplessità e alle polemiche del “popolo” nei confronti di Sorrentino dopo la vittoria dell’Oscar). Nemo propheta in patria. In Italia più che altrove. E questo sarebbe un altro aspetto che varrebbe la pena approfondire per spiegare il fenomeno che stiamo discutendo.

Dunque il problema di individuare “giganti” ritenuti univocamente tali oggi, e in generale la presunta sottomissione della letteratura contemporanea a quella del passato, non dipendono da un’abiezione degli autori e delle loro opere, bensì da fattori socioculturali inerenti la loro ricezione. Il senso del discorso – se mai fosse davvero necessario specificarlo – non è quindi che il sistema della critica sia perverso e da combattere oppure che la responsabilità sia tutta dei lettori: bisogna soltanto conoscere, senza esprimere giudizi o dispensare colpe, la complessità e l’intrico di variabili che intervengono in un fenomeno che si ritiene in errore puramente letterario.

Giuseppe Rizzi

 


Note

[1] Cesare Garboli, Introduzione a La Storia di Elsa Morante, Einaudi, 2006, p. X

[2] ibid. pp. IX-X

[3] Sul caso di Busi è interessante sottolineare come nel 2013, in un articolo, Nicola Lagioia scrivesse di un “non expedit” da parte della critica nei suoi confronti. Sei anni più tardi, invece, il nome di Busi viene menzionato più volte e con favore nell’inchiesta Lo stato della critica e lo stato del romanzo: quattro domande per sessantasette criticia cura di Vanni Santoni per l’Indiscreto, segnale di come il giudizio nei suoi confronti stia mutando. Di contro, il pubblico dei lettori, che aveva decretato il successo di Seminario sulla gioventù alla sua uscita a dispetto della freddezza dei critici, oggi non riesce a dissociare il Busi romanziere da quello delle liti nei talk show

[4] Simone Barillari, in Lo stato della critica e lo stato del romanzo, cit., p. 110.

[5] Raffaele Donnarumma, in Lo stato della critica e lo stato del romanzo, cit., p. 118

[6] Queste dinamiche che soggiacciono al campo letterario erano state smascherate già negli anni ’70 da Pierre Bourdieu, ma la scienza letteraria continua a rifiutare con scetticismo la lezione del grande sociologo francese, e in generale della sociologia della letteratura, come di fronte a tesi eretiche e da abiurare, perpetrando così un autolesionismo che limita il progresso del proprio sapere.

[7] Pierre Bourdieu, Le regole dell’arte, il Saggiatore, 2013, pp. 292-294

[8] Pierre Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gusto, Il Mulino, 1983

[9] Cesare Garboli, Introduzione a La Storia di Elsa Morante, cit., p. IX

[10] Hans Ulrich Gumbrecht, Il nostro ampio presente, Bompiani, 2019, cap. 5

3 Comments

  1. Bell’articolo; il problema è complesso e secondo me un tassello che potrebbe essere aggiunto è quello dei premi letterari, come lo Strega, che non sempre negli ultimi anni hanno premiato opere veramente meritevoli (un titolo su tutti: La solitudine dei numeri primi). Poi ci sono tutti gli elementi nominati: di sicuro un certo snobismo e anche il non accostare un contemporaneo ai grandi nomi del passato. Quest’ultimo punto credo che sia una pesante eredità della nostra grandezza letteraria passata, specie per come ci arriva dagli anni scolastici.

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    1. Grazie mille del tuo commento.
      La questione dei premi letterari credo sia una questione a parte, perché spesso mossi da dinamiche esterne a variabili qualitative e sociali.
      Quanto invece alla grandezza del passato in confronto a una piccolezza del presente (intendo per come viene percepita – vero o sbagliato che sia – e non per come la reputo io), forse si tratta dell’effetto più che della causa.

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