La scrittura dell’urgenza: intervista ad Alcide Pierantozzi

L’inconveniente di essere amati, Alcide Pierantozzi
(Bompiani, 2020)

l'inconveniente di essere amatiAlcide Pierantozzi ha esordito nel 2006, poco più che diciottenne. Io l’ho scoperto alcuni anni fa, con un libro pubblicato da Rizzoli che si chiamava Ivan il terribile. Mi ricordo che c’erano dentro Amici, la musica di Mariah Carey e dei Tokio Hotel; sono rimasto colpito dal fatto che i personaggi di quel romanzo parlavano come me. Quest’anno, dopo un periodo di silenzio, è uscito per Bompiani L’inconveniente di essere amati, il racconto di un cantautore, Paride, che torna da Milano nel luogo dove è nato, in Abbruzzo. Dopo averlo letto ho chiesto ad Alcide di concedermi un’intervista; volevo capire come si pone uno che scrive in quel modo. Abbiamo fatto una videochiamata su Facebook; lui era seduto sul divano in una felpa extralarge e ha risposto alle mie domande con una spontaneità che mi lasciava spesso disarmato. Allora ho pensato che la grandezza di un autore sta in questo: nel fatto che non mette alcun filtro, nel fatto che è le storie che racconta.

Comincio dall’aspetto che mi è piaciuto di più del tuo romanzo: la lingua. I grandi scrittori che hanno formato la tua generazione – penso ai vari Don DeLillo, David Foster Wallace – usavano una lingua muscolare, convinti forse che la complessità linguistica fosse l’unico modo per raccontare la complessità del presente. Come mai tu invece hai questa tendenza di allontanarti dal linguaggio letterario?

Considera che io ho passato un po’ tutte le lingue: il mio primo libro aveva una lingua molto arcaica, a tratti anche desueta per un ragazzo della mia età; il secondo aveva una lingua eccessivamente muscolare. Dopodiché c’è stato un progressivo allentamento, e questo innanzi tutto perché sono cresciuto. Ho capito che non me ne frega niente di utilizzare la bella parola: lo facevo a diciotto anni, ma già a venti, venticinque lo consideravo un sintomo di immaturità. Naturalmente questo non significa che voglio raggiungere una specie di grado zero della scrittura, il senso è quello di lavorare su altri codici linguistici: per esempio, per Uno in diviso non era possibile utilizzare una lingua come questa, perché sarebbe stato un romanzo pulp come tanti. Se c’è stata una piccola novità in Uno in diviso è che ho ripreso la lingua della tradizione, facendo la stessa cosa che avevano fatto altri meglio di me, penso a Tiziano Scarpa con Occhi sulla graticola.

Inoltre se ci fai caso la muscolarità di cui parli è spesso data da una serie di stereotipi e stilemi tipici della narrativa italiana, che devi seguire per forza se vuoi fare il libro da premio, che piace alla critica: la prima persona e il passato remoto. Questo dà subito una grande muscolarità, perché il tempo verbale cambia la lingua. Io invece ho fatto una scelta più tondelliana, così come prima l’avevo fatta in modo un po’ strano con quel passato prossimo di Ivan il terribile. Il ragionamento di fondo è stato questo: usare sempre parole che avessero una rispondenza forte ed epidermica con qualsiasi genere di lettore.

Ti faccio un esempio: siccome ci sono molte ombre nel libro – “l’ombra si riflette” –, a un certo punto ho deciso di cambiare la parola “riflettere” con “sbattere”, perché la trovavo la cosa più giusta e più poetica. In questo la poesia mi è sempre servita: adoro andarmi a rivedere certi libri come La camera da letto di Bertolucci e sottolineare ossessivamente le parole più glamour e contemporanee che oggi spaccherebbero. Trovi delle robe pazzesche se fai una cosa del genere: perché uno scrittore normale per descrivere una notte in cui c’è la luna e le stelle usa mezza pagina; un poeta come Ungaretti invece scrive “silenzio stellato”: che se ci pensi è qualcosa di clamoroso dal punto di vista della visualizzazione scenica.

Detto questo, il vero problema che mi sono posto con L’inconveniente di essere amati non riguardava tanto il registro – quello doveva essere medio-basso, mi è stato chiaro sin da subito. Il punto fondamentale era il folklore. Il rischio grosso, quando racconti la provincia, è fare un libro che puzza di campagna; invece io volevo fare un libro che puzzasse di Hollywood. Perciò ho dovuto lavorare su corde sottilissime: per esempio sul troncato della parola – anda’, fa’. Ho fatto questo ragionamento perché il mio dialetto è molto simile al romano e il romano riesce a non essere folkloristico, forse perché veniamo dalla tradizione di Pasolini, forse perché Roma non è una zona così facilmente circoscrivibile. Quindi ho usato un marchigiano un po’ meno spinto rispetto a quello che si parla da noi, facendo sempre attenzione a rialzare la contemporaneità della scena, per esempio, con l’iPhone o cose di questo genere.

Tra l’altro è una lingua strettamente legata al genere di storie che hai raccontato negli ultimi romanzi. In un’intervista con Gianluigi Ricuperati hai detto che ti piacciono i narratori che riportano il lettore al nudo dell’umano, e mi sembra che negli ultimi romanzi – in cui racconti essenzialmente i posti in cui sei cresciuto – anche tu abbia cercato di fare qualcosa del genere. Quali sono i punti nudi, in cui ti ha fatto dolore scavare per scrivere questo libro?

Questo libro credo che sia il più simile al mio romanzo di esordio. Se devo vedere una specularità tra alcuni miei libri, riesco a vederla oggi come oggi solo tra L’inconveniente di essere amati e Uno in diviso. Per due ragioni sostanziali. La prima è che tutti e due sono nati come sotto dettatura, non sono stati libri ragionati. Li ho scritti entrambi in circostanze molto strane e drammatiche della mia vita, soprattutto dal punto di vista psicologico: a un certo punto dovevo scrivere quella cosa in modo veloce, senza neanche chiedermi il perché. Inoltre secondo me sono accomunati dallo stesso grado di oscurità. Un buon esempio è anche solo la violenza dell’ultima frase del libro, proprio l’ultima battuta; oppure questa Milano oscura che non avevo più raccontato, da cui tutto parte.

Vedo la specularità tra questi due libri, quindi vedo i miei temi di sempre. In particolare è evidente – lo si capisce sin dalla prima scena – che il grande tema di questo romanzo sia quello della madre. Se il libro non avesse al centro la questione della maternità in modo così complesso e unilaterale – la vediamo dal punto di vista del bambino Gianmaria, di Paride, la vediamo in Manolo con la vecchia professoressa che potrebbe essere la madre che non ha mai avuto – sarebbe una qualsiasi puntata di un telefilm. Ma il senso profondo del libro è quello: la madre, il senso di colpa del protagonista, fortissimo, per non essere stato in un certo momento affianco alla madre, e il devasto che lo aspetta, perché torna al suo paese non per farsi una vacanza ma per fare i conti con il proprio fallimento artistico.

Poi ci sono i temi a cui torno sempre – la povertà, un certa zona tra l’Abbruzzo e le Marche che è poco raccontata – ma questa è una cosa che vale per tutti gli scrittori. Hai due possibilità quando scrivi: la prima è prendere per il culo – e prendere per il culo significa, per esempio, che decidi a tavolino di scrivere un libro con un tema storico, un certo numero di pagine, un certo tipo di lingua, solo perché in quel modo attira più attenzione. Se cominci a fare questi ragionamenti accade il disastro, perché scrivere è una cosa intima, è come pensare di vivere una relazione con una ragazza prendendola in giro per mesi, quando in realtà non ti piace e tu non piaci a lei: è una cosa che non ha senso. La vera alternativa è andare al nudo di te stesso. Sono quelle le cose da raccontare: non ha nessuna importanza che siano sempre le stesse quattro, l’importante è cambiare la forma in cui le racconti. Se a uno gli rimane una mosca, come nella storica puntata di Breaking Bad, con una mosca deve essere in grado di costruire una puntata della madonna.

Walter Siti dice che secondo lui la letteratura deve cercare di disseppellire le cose sepolte dalla società e dall’inconscio. Il problema è che le cose sepolte non si vedono, quindi bisogna trovare un modo per intercettarle: mi sembra di capire che il tuo modo è banalmente scrivere, cioè che l’atto della scrittura opera come una specie di rivelazione.

Esatto. Qui però bisogna mettersi d’accordo su un punto. Chiunque studi in una scuola di scrittura è convinto nove volte su dieci che quello che andrà a fare è il risultato per prima cosa della propria cultura, dei libri che ha letto, dell’idea che si è fatto del mondo e delle esperienze che ha avuto. Questo significa, tradotto in parole povere, che quando ti approcci a un mio romanzo ti stai approcciando ai libri che ha potuto leggere un ragazzo di trent’anni, alle esperienze che ha potuto avere un abruzzese che poi è andato a Milano, eccetera. Ben poco, quindi.

La scrittura in realtà è molto di più: è qualcosa che all’improvviso accade dentro una persona, abbastanza casualmente. Non c’entra la maturità, non c’entra quanti libri hai scritto: non è assolutamente vero che io che ho scritto cinque libri ho acquistato una maturità di stile e di atteggiamento superiore a quella di un esordiente che in fondo, se ci pensi, non ha una lingua molto diversa dalla mia che sto al quinto libro. E se partiamo da questo presupposto, allora bisogna innanzi tutto rivedere la pratica della scrittura e come la si esercita: l’inconscio, qualunque cosa sia, bisogna predisporsi a tirarlo fuori. È da matti credere che una persona si alzi la mattina, pensi ai figli, vada a lavorare, poi torni a casa e in un’oretta butti giù una cosa da scrivere tirando fuori questo famoso inconscio.

C’è un libricino che si chiama Ruba come un artista, che ha cambiato la vita a tanti – Xavier Dolan per esempio fece il suo primo film dopo averlo letto. Secondo questo libro dovresti metterti in quello che per te è il migliore stato di relax – e invece c’è gente che dice: “Adesso scrivo, così poi mi faccio un bel birrozzo e mi rilasso”. Ma come ti viene in mente? Te la devi fare adesso la birra, se no cosa mi dai, la tua ansia rispetto alla birra di dopo? Sono ben convinto e voglio sperare che i libri nascano in una situazione ben più misteriosa: che non siano frutto di uno sforzo, ma di un’urgenza: delle difficoltà della vita che stai vivendo. In fondo i libri più belli li amiamo proprio perché sappiamo in che condizioni sono stati scritti: uno legge Petrolio e sa che Pasolini quelle cose le viveva ogni giorno, le faceva.

Se ti lasci andare, se sei sincero con il tuo tema, non puoi sbagliare, non puoi scrivere una cosa non interessante. Poi tutto quello di cui parlavamo prima deve comunque esserci – è necessario che tu abbia letto, che ti sia esercitato, quello è chiaro. Però non è sempre così: ci sono scrittori che non hanno letto più di due libri nella vita e hanno scritto romanzi inarrivabili per altri che conoscono biblioteche a memoria. Come in filosofia: non è che se tu hai letto tutti i libri di filosofia sei un filosofo.

Però questo significa anche che non tutti possono scrivere. Non è una questione di duro lavoro, come dicono alcuni: conta solo il talento.

Certo che non tutti possono scrivere, così come sfortunatamente non tutti possono recitare o fare i medici. Scrivere è una predisposizione, e sulla base di questa ci sono sacrifici da fare e porte da prendere in faccia. Però se guardi bene a quello che ti sto dicendo vedi anche che sulla questione “non è per tutti” sono in realtà molto più aperto: certe volte può essere più interessante leggere l’esperienza di qualcuno che magari non ha un grande talento letterario.

Inoltre bisogna considerare che la predisposizione ha varie forme: c’è chi è più portato per lo storytelling, chi per l’uso della lingua, chi nell’affrontare certi temi. Citati è stato chiarissimo nello spiegare la cosa quando disse che la letteratura è fatta di Thomas Bernhard e di Anna Maria Ortese, che lui portava come esempi di grandezza letteraria, ma è fatta anche del dignitoso romanzo di un erudito come può essere Il nome della rosa di Umberto Eco, che non ha niente a che vedere con quella grande letteratura ma è comunque letteratura. Non sta a te scegliere in quale fascia collocarti.

L’inconveniente di essere amati ha molti più riferimenti cinematografici che letterari. Mi ha colpito una cosa che hai detto, e cioè che all’inizio lo visualizzavi come un film, anche se non volevi che fosse una sceneggiatura. Allora mi chiedo, perché non scrivere direttamente un film? Perché scrivere un romanzo?

La domanda dovrebbe essere posta secondo me a tutti gli scrittori a partire dagli anni Sessanta, Settanta. I romanzi ormai vengono scritti come film: il cinema ha cambiato radicalmente il modo di scrivere libri. Da dove pensi che vengano, per dire, il montaggio alternato o la separazione dei paragrafi? Se vedi bene un grande film impari molto. Pensa a certe scene della storia del cinema, non serve andare a prendere chissà quali film, pensa a una scena come quella in cui Tom Hanks uccide Paul Newman in Era mio padre, quell’uso della musica, della pioggia, quei movimenti: vogliamo credere che un libro di McEwan abbia da insegnarmi di più?

Inoltre sono convinto che per tenere l’attenzione del lettore debbano esserci delle regole ben precise. Il lettore vuole dialoghi, vuole paragrafi il più possibile brevi, vuole – anche se non ne è cosciente – che esterno e interno, buio e luce, si alternino: perché altrimenti non c’è un richiamo continuo di attenzione. Sono cose molto tecniche che ti poni quando lavori a una sceneggiatura perché poi le devi mostrare; quando lavori a un romanzo invece di solito no. Secondo me l’approccio filmico all’opera letteraria oggi fa acquisire valore. Poi io sono un cinefilo, sono un regista mancato, quello è stato il mio fallimento: in fondo ogni mio libro, e questo soprattutto, è stato scritto perché non avevo la possibilità di farci un film.

Tra l’altro scrivi anche sceneggiature. C’è qualche aspetto che ti fa preferire la scrittura letteraria a quella per il cinema?

Quando scrivi una sceneggiatura non sei totalmente padrone: devi scontrarti con la fattibilità concreta del film, con i costi, con il regista. Mentre quando scrivo io sono il regista. Se ci fai caso non c’è un secondo di questo libro che non possa già essere girato: è il film già fatto, studiato proprio nei tempi. Quindi per me è stato un lavoro ancora più divertente: nella scelta di scrivere in questo modo non c’è un ragionamento di carattere meta letterario, il ragionamento è solo che quando scrivo mi voglio divertire, mi voglio emozionare, quindi l’ho scritto come se avessi girato il mio primo film.

Ecco, forse ho trovato una risposta alla tua domanda di prima: perché un libro dovrebbe meritare di essere letto, oggi, quando si ha l’opportunità di vedere dei film della madonna, serie tv della madonna, leggere romanzi immensi come tutta l’opera di Roth o di Wallace o Dostoevsky? Perché dare un contributo? Io non voglio dare nessun contributo: non è che voglio mettere la mia cacatina in mezzo a quella di tutti gli altri. Quello che voglio è dare un’esperienza culturale ed emotiva diversa: questo significa che se tu leggi un mio libro non stai guardando un film, è chiaro, però non stai neanche leggendo un romanzo normale – è qualcosa di nuovo. Non ci sono obiettivi che vanno oltre questo. Non sono in grado, per esempio, di intercettare i cambiamenti in atto nella nostra società, nella nostra cultura, tra di noi: faccio parte di una generazione che dall’11 settembre all’eruzione dei social e dei telefonini ha visto dei cambiamenti velocissimi. Non me la sento di esprimere pareri: non è quello il contributo che devo dare al mondo.

Intervista a cura di Pierpaolo Moscatello

(In copertina: foto di Agne Raceviciute)

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