Tra due gradi di realtà – La comicità di Čechov

Quando si parla del teatro di Čechov, è atteggiamento comune quello di attribuire in blocco ai suoi lavori quella proverbiale atmosfera di indefinita tristezza che nella tradizione ne ha accompagnato la gran parte delle regie. Ciò che non tutti sanno è che: 1. Čechov scrisse un numero piuttosto elevato di opere meno conosciute che risultano inequivocabili commedie; 2. Čechov scrisse anche i suoi più grandi successi, mi riferisco a Il gabbiano, Zio Vanja, Tre sorelle, Il giardino dei ciliegi, pensando a essi come a delle commedie. Altro dato che sfugge a molti (3) è la collaborazione tra Čechov e la compagnia del Teatro d’Arte di Mosca, guidata da Nemirovič Dančenko e da niente di meno che Stanislavskij, l’inventore del celebre metodo di recitazione: la grande stima che Čechov nutriva nei confronti di Stanislavskij era però turbata dall’altrettanto grande insofferenza che Čechov provava nei confronti degli aspetti più sentimentali delle sue regie.

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Čechov e la moglie Ol’ga Knipper, attrice del Teatro d’Arte di Mosca – Dominio pubblico

Se è vero che Čechov ha infranto un’enorme quantità delle regole che governavano la scena prima di lui, è anche vero che dobbiamo ascrivere a Stanislavskij il merito o la colpa se quella nuova drammaturgia da commedia è passata alla storia come “drammatica”, con grande disperazione dell’autore: gli attriti tra scrittore e regista nacquero proprio sul terreno del genere. Il nostro drammaturgo eluse consapevolmente di rispettare la separazione rigida tra tragico e comico, ma il suo senso dell’umorismo doveva risultare complicato ai contemporanei almeno quanto a noi. Anziché chiedersi perché i lavori di Čechov non siano commedie o addirittura perché non siano tragedie, ha però forse più utilità porsi la domanda alla base di entrambe le questioni: che cosa fa di una commedia una commedia?

Per rispondere, metteremo i suoi testi maggiori alla prova del confronto con quei testi che “davvero” rispondono in linea generale alle esigenze del vaudeville. Mi concentrerò innanzitutto su tre atti unici, I danni del tabacco – storia di un tuttofare vessato dalla moglie e da lei costretto a tenere una conferenza che si risolverà in una confessione pubblica dei propri danni privati –, L’orso – duello verbale, e in ultimo armato, tra una vedovella convinta dell’infedeltà degli uomini e un ex dongiovanni convinto dell’infedeltà delle donne –, La domanda di matrimonio – gioco teatrale basato sul rinviarsi di una proposta di matrimonio a causa delle violente discussioni che ne interrompono la formulazione. Sugli ultimi due perché diversi nelle soluzioni a fronte della somiglianza nello schema dell’amore-litigio, e sul primo perché, nell’impianto monologico, permette di vedere all’azione il Čechov creatore di personalità.

Tra i testi maggiori, invece, più difficili da riassumere per contenuto, mi soffermerò su Zio Vanja, unico che si chiuda su una scena di pianto, e Il giardino dei ciliegi, opera sulla quale più che su ogni altra le aspirazioni al comico di Čechov si scontrarono con i risultati della regia. Ci si accontenti di sapere che il primo vede scoppiare il conflitto tra il Vanja del titolo e suo cognato, professore alla cui fortuna Vanja ha dedicato la propria vita e di cui ama la nuova moglie Elena, proprio come il medico Astrov, a sua volta amato dalla giovane Sonja; nel secondo, una famiglia dell’aristocrazia in decadimento, per inerzia e rassegnazione, si fa portar via la terra dalla necessità di ripagare i propri debiti.

1. A questo punto, una volta dati presupposti e riferimenti, possiamo passare i nostri testi al setaccio delle specifiche che “fanno di una commedia una commedia”: potrebbe venirci la tentazione di varare l’esperimento riesumando il vecchio cliché della commedia che finisce bene e della tragedia che finisce male. Al di là di quanto risulta all’evidenza – per rimanere sul terreno Čechov, La domanda di matrimonio si chiude, a proposta effettuata, sull’ennesimo litigio, premessa di un matrimonio infelice –, può però rivelarsi utile una riflessione non tanto sui finali dei nostri testi, quanto sui percorsi drammaturgici di cui quei finali sono la meta. Qualunque opera teatrale, commedia o tragedia, quasi sempre prevede nel suo svolgimento il transito da un equilibrio di un certo tipo (A) a un equilibrio di un altro tipo (B). Prendiamo L’orso: la vedova Popova giura di mantenere il lutto a vita per dimostrare all’infedele marito morto, in un misto di amore e masochismo vendicativo, la propria fedeltà (A); arriva Smirnov, allergico al genere femminile, litiga con la Popova e si innamora del suo caratterino (perturbamento); la Popova cede al bacio di Smirnov, i propositi dell’uno e dell’altra vanno a farsi benedire (B).

Le cose però non appaiono così semplici negli altri testi, a partire dai restanti atti unici. Čubukov e la Stepanovna de La domanda di matrimonio non si amano, gli impliciti delle battute lasciano intuire che entrambi si sposano solo perché altrimenti sarebbe troppo tardi per sposarsi in assoluto; non si amano all’inizio, ma nemmeno dopo il tour de force della proposta. Il povero Njuchin (I danni del tabacco), dopo il suo sfogo – un’imbarazzante escalation di umiliazioni il cui disvelamento porta solo altra umiliazione – vede la moglie nel pubblico e, spaventatissimo, finge di terminare la conferenza che non ha tenuto. L’orso è un perfetto gioiello di brevità, ma la sua perfezione si dimostra allora ancora più originale nel momento in cui dubitiamo del fatto che A e B coincidano: la fedeltà della Popova e di Smirnov, alla fine, resta ancora tutta da provare, visto che i loro ideali sono stati tranquillamente traditi. Sono infedeli gli uomini o le donne? Se non lo fossero entrambi, Popova e Smirnov non si amerebbero. Saranno fedeli tra di loro? A uguale B.

La tendenza a un percorso drammaturgico ciclico anziché lineare si esaspera quando ci accostiamo a Zio Vanja o Il giardino dei ciliegi. La prima pièce si apre sul sovvertimento delle abitudini familiari da parte dell’arrivo del cognato di Vanja e della moglie; dopo giorni/pagine di ozio inconcludente, dopo un omicidio e un suicidio miseramente falliti da parte di Vanja, ultima prova dell’impossibilità del cambiamento – tragica mancanza di tragedia, è il caso di dirlo –, Vanja non ha ottenuto niente con Elena, né Sonja con Astrov, ma nemmeno Astrov con Elena. Elena, il marito e Astrov ripartono, e Vanja e la nipote Sonja si rimettono allo sfiancante lavoro di tutti i giorni.

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Vanja tenta di sparare al cognato; messa in scena della compagnia del Teatro d’Arte di Mosca – Dominio pubblico

Il giardino dei ciliegi abbassa il sipario sulla partenza della famiglia di Ljubov’, la casa si svuota come si era riempita all’inizio, tutto è stato perso, con dolore ma alla fine senza badarci troppo: la vita, indimostrabile bagliore tra due eterne parentesi di buio, si ripiega su se stessa, rimane solo il vecchio e morente maggiordomo Firs. Ancora, A uguale B. Alla spinta espansiva della cronologia risponde la spinta regressiva della vita, che ricade sul riproporsi infinito del presente e dell’invecchiamento, mentre si allontanano il passato, malinconico o sprecato, e anche il futuro, presagio del cataclisma e insieme unica via di fuga della speranza. Ma la speranza non basta mai a spingere i personaggi ad agire.

Perché, questo è il punto, nessuno fa nulla per rispondere ai propri problemi, se non seguire la corrente. Passano le giornate, i personaggi di Čechov dormono, mangiano, bevono tanto, soffrono, ricordano, si corteggiano senza prendersi troppi rischi, nemmeno i moventi più prosaici della realtà – triti classici della commedia –, attrazione, matrimonio, denaro, terra, riescono a sollecitare più di quel poco trambusto che trascina avanti la trama. Ma soprattutto, i personaggi di Čechov parlano, e in dosi sproporzionate rispetto a ciò che effettivamente “fanno”.

2. Ora, il genere comico presuppone un uso particolare della lingua e dell’orchestrazione degli eventi, che origina da uno studiatissimo irrealistico equilibrio ritmico tra le opposte dinamiche della sorpresa e della ripetizione.  Da questo punto di vista, gli atti unici non fanno una piega. Viene però il sospetto che sia solo la minore estensione a dare compattezza a queste prove drammaturgiche, perché il teatro cechoviano, atti unici inclusi, è il regno della chiacchiera. La ripetizione, se non calmierata dalla sorpresa, scade a banale ripetizione. Battute, scherzi, ce ne sono anche nei testi maggiori, ma affondano nel grande lago della chiacchiera: fanno la loro comparsa in quanto battute e scherzi, come avviene nelle normali conversazioni.

La domanda di matrimonio dell’omonimo atto unico degenera proprio perché Čubukov non arriva mai al dunque della proposta. Ed è nelle pieghe di questo discorso così dispersivo che emerge la vera ragione scenica della chiacchiera cechoviana: l’implicito psicologico. Čubukov e la Stepanovna, nel profondo, non vogliono sposarsi, stanno rimandando. Resta all’intuizione dello spettatore quella sottile sottotrama delle psicologie dei personaggi, delle loro storie non dette, che invece ne I danni del tabacco emerge gradualmente.

Quanto alle situazioni comiche nelle opere “drammatiche”, Čechov conosceva a memoria gli espedienti del vaudeville: mille volte lancia l’esca ai suoi personaggi. Ma è un attimo a trasformare un momento divertente in un momento ridicolo. All’ennesimo delirio di Gaev, fratello di Ljubov’, che vive in un mondo tutto suo fatto di giochi al biliardo e accessi di sentimentalismo, ciò che resta di un sorriso è la pietà. Sarà forse meglio, allora, guardare alla caratterizzazione classica dei personaggi della commedia: spesso, tipi più che persone, comunque tutti azione e tutti superficie, limpidi e non troppo scrupolosi.

Questo profilo può corrispondere alle piccole parti del teatro di Čechov, ma non ha già niente a che vedere, ad esempio, con uno come Njuchin, cui è lasciato diritto di parola per delle pagine intere. La parola cechoviana scava nella personalità, ne cesella le caratteristiche, e ci mostra quello che non vediamo: un uomo solo, nella vita, ma anche rispetto al suo immaginario uditorio, che probabilmente lo disprezza. Se ci mettiamo a ridere anziché a piangere è solo per la meschinità del personaggio. In realtà tutti i personaggi di Čechov vivono della loro solitudine e nelle loro parole. Chiusi nelle bolle dei propri diversivi, hanno paura di uscire allo scoperto – e per questo si tradiscono agli occhi del lettore attento.

Elena non cede alle avances di Astrov solo per non deviare da un percorso intrapreso, solo per comodità o istinto di conservazione. Gli schemi autorepressivi o procrastinatori nelle storie d’amore di Čechov celano la paura del cambiamento. La nostra specie si rivela allora piccola ed egoista: per egoismo distrugge tutto, litiga, recide la bellezza i rapporti umani come la bellezza delle foreste di Astrov o dei ciliegi di Ljubov’. Si delinea così il prototipo del protagonista cechoviano: un uomo che si dibatte tra due mondi sovrapposti, non abbastanza puro da agire tragicamente né abbastanza pratico da agire comicamente, solo abbastanza chiuso nell’ascolto della propria interiorità da non agire affatto sulla propria esteriorità, che pure lo coinvolge; come un fantoccio tirato da due cavalli, resta immobile al centro e poi si sfibra.

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Scenografia de “Il giardino dei ciliegi” nella messa in scena del Teatro d’Arte di Mosca – Dominio pubblico

3. Ma allora, se gli atti unici non sono poi così diversi dai loro fratelli maggiori, che cosa hanno che ci fa ridere ancora oggi? Poco fa, ho menzionato la meschinità di Njuchin. In effetti, quello che forse sempre resterà l’ingrediente numero uno della commedia risiede nella gestione della distanza. Un personaggio veste abiti comici fintantoché il pubblico lo sente diverso da sé – il potere liberatorio della commedia consiste nell’offrire agli spettatori la possibilità di ridere dei propri difetti senza saperlo. Mantenersi alla larga dal realismo coadiuva il senso della distanza. Ma possiamo anche ritenere con Astrov che, distanza o no, «la condizione normale dell’uomo sia di essere bislacco», e che quindi la differenza tra tragedia e commedia si nasconda in un’omissione. Seguendo questo ragionamento, diremo che, tra commedie propriamente dette e “drammi” cechoviani, i sentimenti sono gli stessi, le bislaccherie le stesse, ma trasferite su uno sfondo a maggiore grado di realtà: ecco che i centri d’allarme dello spettatore si attivano – state parlando di me!

Elisa Ciofini

Foto di copertina: Boris Kustodiev, Maslenica (1919) – Dominio pubblico (https://it.wikipedia.org/wiki/Boris_Michajlovi%C4%8D_Kustodiev#/media/File:Maslenitsa_kustodiev.jpg)

1 Comments

  1. ARTICOLO FANTASTICO, CHE METTE IN LUCE IL METODO DEL GRANDE STANISLAVSKIJ, PERMETTENDO DI CAPIRE LA VISIONE DI CECHOV ALL’INTERNO DELLE SUE OPERE. L’ULTIMO SPRAZZO DA ME VISTO DI SPERIMENTAZIONE SU CECHOV A CERTI LIVELLI, FU LO SPETTACOLO DI ANTONELLO AGLIOTI, “IL GIARDINO DEI CILIEGI”, PRESENTATO AL TEATRO LA PIRAMIDE DI ROMA, PRODUZIONE TEATRO “LA MASCHERA”, CON LA SPLENDIDA INTERPRETAZIONE DI ANNAMARIA GHERARDI.

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