Il bene che ti voglio, Sandro Frizziero
(Mondadori, 2023)
L’ autore chioggiotto, che era stato finalista del premio Campiello 2020 con Sommersione, riconferma con l’ultimo romanzo, Il bene che ti voglio, l’attitudine a narrare storie con un tono al tempo stesso ironico e tragico, sardonico e passionale.
Protagonista del romanzo è Alessio Gorgosalice, assicuratore poco più che trentenne, uomo mediocre, rintanato in una opaca normalità. Caliginosa è pure la sua voce, con cui conduce gran parte della narrazione in prima persona, offrendo al lettore il suo sguardo personale sulle cose; alle volte si ha però l’impressione che questa voce narrante scivoli, manometta, confezioni bugie (che finisce per raccontare anche a se stesso).
Attorno ad Alessio ruotano diversi personaggi femminili: Isabella, la moglie ingegnera, dai comportamenti sobri e austeri e misurati; Barbara, l’amante procace e insicura, con cui Alessio intrattiene un rapporto solo virtuale; infine Nonna Armida, rinchiusa nell’ospizio Villa della Pace, a cui il protagonista indirizza il suo monologo cieco.
In una narrazione dove passato e presente sfocano i propri confini, e la stessa narrabilità del passato è continuamente rinegoziata, i fili del discorso reggono un’intelaiatura complessa. Ho avuto la fortuna di entrare con l’autore dentro questa complessità, facendogli qualche domanda.
Partirei dal titolo: cos’è e qual è il ‘bene’ cui fai riferimento, e che torna quasi ossessivamente nelle parole del protagonista?
Nelle intenzioni, dopo aver scritto di tanto male volevo scrivere del bene.
Ciascun personaggio si muove seguendo la propria personale concezione di bene ma, mentre crede di avvicinarsi alla sua realizzazione, il lettore in verità ha modo di accorgersi che se ne sta allontanando.
In altre parole volevo mettere alla prova il concetto dimostrando la sua relatività, la sua ambiguità di fondo: è come se i personaggi fossero vittima di un errore prospettico, un’illusione ottica che gli fa vedere il bene anche dove non c’è.
In più, al concetto si legano altri due spunti: il desiderio (cosa diventa il bene, quando si trasforma in desiderio) e la memoria (dove risiedono e come si possono recuperare le radici del bene).
In questo romanzo, la Landa veneta è molto presente non solo in quanto paesaggio, ma quasi come forma mentis che condiziona e decide il carattere dei personaggi, le loro scelte e il modo in cui guardano alle cose. Ti chiederei quindi qualcosa a proposito di questa ‘dimensione territoriale’ della tua scrittura, che del resto palpita anche nelle tue precedenti opere: quanto è intinta di Veneto, quale Veneto vi si respira?
Si tratta sicuramente di un Veneto laterale, com’è chiaro dagli stessi luoghi della storia, che termina la regione del Polesine, una delle aree meno venete del Veneto in quanto zona di confine, periferia delle periferie, che trasgredisce l’immagine del Veneto centrale, produttivo, economicamente sviluppato.
E a proposito del luogo, più che vivere in un ambiente, i personaggi sembrano partoriti dal territorio stesso: esistono in funzione del paesaggio.
Nella scrittura ovviamente vivono tanti riferimenti agli autori veneti che amo e che hanno contribuito a plasmare il mio sguardo: dai classici del Veneto rurale (Meneghello), ai più contemporanei (Bugaro, Trevisan, Maino).
I tuoi personaggi son sempre stati finora inattendibili, in qualche misura – penso a quanto era irridente e cinico il neet del tuo romanzo d’esordio, o a quanto lacunosa e ambigua è la narrazione di Sommersione, dove pure la voce narrante si pone come fallace. In questo caso, con una narrazione in prima persona hai sperimentato proprio il filtro di uno sgusciante ‘narratore inaffidabile’.
Hai lavorato ‘per via di levare’, o fin dall’inizio della scrittura avevi chiaro cosa doveva rimanere fumoso ed equivoco tra le parole di Alessio, lasciando così il lettore a domandarsi dov’è il confine tra verità e menzogna?
Lavoro sempre “per via di levare”, ma in questo caso mi era chiaro di voler offrire al lettore una pluralità di punti di vista: mi piaceva l’idea di moltiplicarli, facendo coesistere un narratore in prima persona, che è Alessio, ma restituendo anche la prospettiva di numerosi altri personaggi.
In più, ogni tanto fa incursione nel testo un narratore in terza persona, che entra a complicare il quadro. In questo modo la storia sembra non avere un centro ma è tutta una grande periferia, dove ogni zona è centrale.
L’impressione che volevo si creasse è quella di una sorta di romanzo corale, dove potessero parlare anche gli animali, la natura… L’idea è quella di un narratore gassoso, aleggiante, che non è da nessuna parte ma è un po’ ovunque.
Ti farei poi una domanda sul tema della memoria, che poi sconfina nel tema del tempo: mi pare che in questo romanzo, molto più che nei tuoi precedenti, vi sia una totale abdicazione alla linearità; la cronologia degli eventi che Alessio va raccontando nel suo monologare si fa sempre più umbratile e opaca nel corso della storia.
Come mai hai sentito di dover gestire così il tempo del racconto, mentre prestavi ad Alessio la voce per raccontare la sua storia?
Ho provato a rovesciare il luogo comune per cui il passato è cristallizzato e stabile mentre il futuro è aperto è sconosciuto: il passato è tanto sconosciuto quanto il futuro, ed è mutevole. La vita dei personaggi è continuamente interessata da questo mutamento del passato, che può cambiare di segno col passare del tempo, se lo si richiama alla memoria: ricordare significa sempre mentire, o meglio plasmare.
Trovo molto interessante il modo in cui il ricordo di qualcosa che ci coinvolge da vicino ha a che fare con la narrazione: per ricordare qualcosa di cui siamo stati testimoni o protagonisti abbiamo bisogno di raccontarcelo, di verbalizzarlo. Proprio in questo senso siamo inattendibili, perché il nostro è sempre un punto di vista parziale e interverrà sempre un aggiustamento rispetto alle sensazioni e gli umori di quel momento.
Quella che siamo abituati a immaginare come linea del tempo dovrebbe essere rappresentata come groviglio, spirale, pozza piuttosto.
Nel romanzo fai ricorso di frequente all’immaginario degli oggetti inanimati, spesso associati alla natura umana attraverso parallelismi o similitudini: la nonna di Alessio malata di Alzheimer viene fin da subito presentata con una bambola in braccio, oggetto utile alla doll therapy, che sembra quasi il suo corrispettivo per com’è «grigia, livida, inerte», (p. 31); Isabella, la moglie di Alessio, gioca a comporre nature morte con la frutta senz’anima del supermercato (p. 75); nella regione del Polesine si respira aria di «morte apparente» (p. 167). A volte i personaggi sembrano nient’altro che i fantasmi di se stessi. Cosa volevi ottenere attraverso questa modalità di rappresentazione?
Tutto il libro è intessuto di motivi ricorrenti che si richiamano, tra cui l’oggettificazione o reificazione, come quella che interessa i personaggi. Un chiaro esempio è rappresentato dal rapporto amoroso tra Barbara e Alessio, che si fonda sulla sublimazione del desiderio: la loro liason è mediata unicamente da webcam e confronti virtuali; rifiutando il contatto fisico, la relazione diventa una sorta di programma tv o porno, immunizzato rispetto al trauma che pure comporta l’incontro con l’Altro.
O ancora, penso a quando Barbara confida ad Alessio una delle sue perversioni sessuali, che è proprio quella di essere trattata come un oggetto.
Esiste quindi ed è robusto nel romanzo questo fil rouge degli oggetti, che servono per rispecchiare i personaggi, il loro stato d’animo e la loro condizione: nella società in cui viviamo siamo tutti, se non oggetti, funzioni.
Penso alla bellissima pagina di Aldo Nove da La vita oscena: empatizzo con l’oggetto morto che parla di me. Come in quel caso, gli oggetti aiutano a parlare dei personaggi in maniera indiretta e polisemica, aperta.
D’altronde cerco sempre di non dare al lettore significati preconfezionati, ma lascio che sia lui con le sue interpretazioni a comporre il senso, anche attraverso strade o chiavi di lettura che non prevedevo.
A cura di Viviana Veneruso