L’idioma di Casilda Moreira, Adrián N. Bravi
(Exorma, 2019)
Adrián N. Bravi è argentino e vive a Recanati, dove lavora come bibliotecario. È ormai da più di una decina d’anni che scrive in italiano; facendolo anche piuttosto bene, a giudicare dalla sua ultima fatica letteraria. Ne L’idioma di Casilda Moreira il possesso della lingua è sicuro, la danza scrittoria condotta con maestria, la trama accattivante: tutto concorre alla costruzione di un libro piacevolissimo che non trovo motivo di sconsigliare ad alcuno.
Il romanzo è ambientato tra le Marche e, soprattutto, le sconfinate pianure della Pampa argentina, dove il giovane protagonista, Annibale – studente universitario – si ritrova a vivere per alcuni giorni. Quanti, non si saprebbe dire con esattezza; se ne perde il conto, nello stiracchiarsi del tempo in un posto dall’aria immobile, nel quale l’idea di spazio è disegnata dalle ombre che s’allungano pigramente sulla prateria.
Quella di Annibale in Argentina non è una mera gita di piacere. Il ragazzo è rimasto affascinato dal racconto di una curiosa vicenda che assilla il suo docente di etnolinguistica: un’antichissima lingua indigena sudamericana che si credeva scomparsa, il günün a yajüch, è in realtà ancora parlata da due individui; se non fosse che i due non si rivolgono la parola da molti anni. Il rischio che l’idioma muoia definitivamente è tutt’altro che remoto, dato che non ne esistono registrazioni. Ma se si riuscisse a farne…
Annibale parte, dunque, con l’intenzione di provare a far dialogare i due refrattari e registrarli; parte senza sapere cosa lo aspetta, cosa lo troverà. E la pianura saprà stupirlo, con le sue luci lente e il mate e i cespugli spinosi e il vento. E i cavalli.
«Il vecchio ricambiò il saluto, raschiando con la bombilla il fondo del mate e succhiando rumorosamente; poi chiese ad Annibale se avesse perduto il cavallo.
– No – rispose lui – non ho perduto nessun cavallo.
– E allora – chiese ancora Bartolo – come sta il tuo cavallo?
Doveva riflettere un momento prima di rispondere perché, pensò, se avesse confessato che lui il cavallo non ce l’aveva mai avuto e che, anzi, non era mai salito sopra nessun animale, neanche su un pony, era sicuro che il vecchio avrebbe diffidato parecchio di lui. Allora rispose che il suo cavallo l’aveva lasciato laggiù, indicando oltre la stazione, da dove era venuto e che, inoltre, stava bene, come tutti i cavalli quando stanno per conto proprio. Era solo un caso, voleva fargli credere, se in quel momento era un uomo senza cavallo; la sua era una condizione temporanea, del tutto simile a quella del vecchio adesso, mentre prendeva il mate sullo sgabello.»
Catturando con una narrazione davvero scorrevole e una storia ben intessuta, Bravi, senza la pesantezza dei “discorsi seri™”, senza imperativi o giudizi categorici, invita gentilmente il lettore a pensare a quello che è, in effetti, un problema reale che assilla molti studiosi del settore: la morte delle lingue minori. Non che si tratti di un tarlo che affligge il solo continente americano – tutt’altro. Il pesce grande mangia il pesce piccolo, il popolo forte s’impone sul più debole; nel caso dei günün a künä, il primo duro colpo è stato inferto dall’espansione dei Mapuche, il secondo dai colonizzatori europei.
Oggi in Sudamerica vengono promosse apposite politiche volte a favorire l’intrapresa di faticosi, ma agguerriti, percorsi di recupero delle lingue indigene, che trovano così un loro riscatto dopo essere state considerate a lungo qualcosa da censurare, da nascondere, di cui vergognarsi; assieme ad esse veniva soffocato anche il patrimonio culturale cui appartenevano. Soltanto di recente si è cominciato a riconoscere in molte parti del mondo il valore che spetta alle culture minori, e quindi a tutelarle; è dunque importante che se ne parli, che si rifletta su cosa perdiamo quando pretendiamo di “esportare civiltà”, quando più o meno consapevolmente accondiscendiamo all’idea che una cultura meriti più spazio di un’altra.
Ma cosa succede quando una lingua sembra vocata al suicidio? È questo il caso del günün a yajüch, che impone di smettere di parlare di ciò che muore, cessare di usarne le parole, che si tratti di una persona o di una promessa. La lingua è così costretta a un continuo rinnovamento. Se ci si è innamorati in günün a yajüch e il sentimento muore, allora sembrerebbe che la regola imponga non si parli più in questa lingua.
«Una lingua primitiva che sfiora la pianura e respira tra i cespugli spinosi; poi si perde e ritorna senza parole. Le resta solo il ritmo, simile a quello di un uccello, intrappolato nella sua melodia. Ha accumulato nel tempo la memoria di varie generazioni e ora si trova priva di eredità, svuotata del suo passato o con un passato incomprensibile che non sa più accogliere le parole… Amarsi e odiarsi in una lingua e trovarsi d’accordo in un’altra. Piangere per una storia in una lingua e ridere della stessa storia in un’altra. La lingua si perde in quella dell’altro. Una mattina il mapuche arrivò come un vento che spiana e oggi resta solo l’eco di quell’antica lingua. L’idioma günün a yajüch non possiede nulla al di fuori di sé stesso. Non ha più parole per indicare ciò che non conosce. Legato ai misteri della terra e del vento. Forse la stessa parola che indica la lingua, indica anche il vento. Il vento, come le parole, crea ciò che sfiora e poi si perde…»
È salvabile una lingua del genere? Questo l’interrogativo cui Annibale cerca di dare una risposta.
Alessia Angelini
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