Cenere, Grazia Deledda
(Utopia Editore, 2021)
Cenere, in libreria da qualche mese, è il primo titolo scelto e introdotto da Michela Murgia per il progetto di recupero dei romanzi di Grazia Deledda da parte di Utopia Editore. Riscoprire la scrittura e la poetica dell’autrice sarda – prima donna italiana a ricevere il Premio Nobel per la Letteratura nel 1926 – è come imbattersi nello splendore di un accusorgio(s), quei denari e ricchezze che, secondo la tradizione popolare sarda, venivano nascosti dai paesani tra le pietre dei nuraghi per impedire agli invasori di entrarne in possesso. Quasi con accezione mitica dunque, far riemergere l’opera di Deledda dall’oblio letterario italiano contemporaneo, che ai tempi conobbe invece fama internazionale, equivale a riportare alla luce un antico tesoro la cui aura, a distanza di più di cent’anni, risulta tutt’oggi abbacinante – un tesoro, come tutti i tesori, reso ancor più prezioso dallo scorrere del tempo.
È proprio con la ricerca di accusorgios tra i nuraghi che comincia la storia in Cenere. Nell’entroterra sardo di inizio secolo scorso, più precisamente nel nuorese, la giovane Olì si innamora di Anania, contadino che in quelle zone cerca preziosi nascosti tra le pietre. Nonostante sia sposato – con una donna più vecchia di lui –, Anania ricambia l’amore di Olì e, facendo buon uso di promesse che non manterrà mai, spinge la giovane verso la passione. Frutto di questa passione è il piccolo Anania, vero protagonista del romanzo. Per i primi sette anni della sua vita il bimbo non conoscerà suo padre, e vivrà nella natura selvaggia del paese di Fonni con la madre, allontanata dalla casa paterna a causa del peccato che ha commesso, tra miserie e scorribande picaresche in mezzo alle montagne.
Poi, un giorno, tutto cambia. Senza spiegare nulla al bimbo, Olì porta Anania fino a Nuoro dove lo lascia sulla soglia del mulino dove il padre lavora. Olì sparisce così, repentinamente, dalla vita di Anania, che rimarrà a vivere con il padre e sua moglie, chiamata zia Tatàna, la cui reazione nei confronti dell’arrivo del bambino è tutt’altro che avversa: lo accoglie, lo accudisce come un figlio. Anania cresce a Nuoro diventando il pupillo del signorotto del paese, che asseconda il suo desiderio di studiare. Il ragazzo si innamorerà della figlia del suo benefattore, la bella Margherita, e andrà a Roma per continuare il suo percorso di studi, sempre col taciuto segreto di ritrovare la madre perduta. Al ritorno in Sardegna, Anania scoprirà che Olì, pur vivendo nella miseria, è ancora viva. Il loro incontro, verso la fine del romanzo, sancirà una definitiva svolta nell’animo del giovane uomo, il quale si ritroverà a mettere in discussione tutto ciò che fino a quel momento era importante nella sua vita – il suo amore per Margherita, i suoi studi – in nome del senso del dovere nei confronti della madre. Ma le cose, purtroppo, avranno tutt’altro esito rispetto a quello che Anania sembrava auspicare.
Pubblicato per la prima volta nel 1903, in Cenere si ritrovano molti temi e motivi cari all’autrice sarda, gli stessi topoi che ricorrono all’interno della sua corposa produzione letteraria: l’ambientazione rurale della Sardegna del primo Novecento, la tensione che intercorre tra questa e il continente; il rapporto tra sentimento religioso e sapere popolare, tra folklore e superstizioni, l’interazione dell’uomo con la Natura. Tutti ingredienti che si mescolano tra loro e prendono corpo attraverso l’agire di personaggi che, nonostante tentino di perseguire il bene, spesso rimangono incappati nelle proprie colpe e contraddizioni, divenendo infine figure totalmente tragiche poiché impossibilitati a sovvertire la sorte funesta a cui sembrano esser destinati. Nel raccontare la triste storia del giovane Anania, infatti, il nodo centrale risulta essere il suo abbandono da parte della madre – come si deduce sin dall’inizio –, ma non solo: l’abbandono è la miccia che fa esplodere tutta una serie di considerazioni successive fortemente contraddittorie, che marcano a fuoco la psicologia del protagonista sin dalla scomparsa di Olì:
«Egli meditava continuamente la fuga: come a Fonni, mentre viveva con la madre, desiderava di fuggire per andare alla ricerca del padre, ora che il suo sogno s’era avverato, non pensava che ad un viaggio per ritrovare Olì. […] Eppure egli non la amava: non la amava perché da lei aveva sempre ricevuto più busse che carezze, e l’affronto dell’abbandono, di cui sentiva istintivamente tutta la vergogna; ma non amava neppure suo padre, […] quell’uomo infine che lo baciava in segreto e davanti alla gente lo maltrattava e lo umiliava continuamente». (pag. 49)
All’abbandono iniziale, dunque, l’assenza fisica di Olì si trasforma sin da subito in presenza ingombrante, pervasiva, nei pensieri del figlio, le cui decisioni di vita, seppur prese nel tentativo di emanciparsi, saranno comunque volte al ritrovamento della madre, in una ricerca talmente estenuante a livello mentale che non solo sembra tramutare Olì nel personale accusorgios di Anania – creando un parallelismo con le ricerche del padre in giovinezza – ma che diviene infine ossessione, espressione d’una indole monomaniaca. Il senso di colpa, l’umiliazione e la vergogna derivanti dall’abbandono e dall’essere frutto di un amore extraconiugale sono sentimenti talmente radicati nel giovane che nessun tentativo di elevazione – sociale, intellettuale, sentimentale, persino fisica tra i monti del nuorese – riesce a sciogliere le sue inquietudini esistenziali, inquietudini a cui Anania molto spesso dà voce attraverso parole che, nel ricorrere frequentemente nel testo, assumono i contorni di una nenia ripetuta per sancire la sua diversità nei confronti di chi lo circonda, tutte persone, a suo dire, incapaci di comprenderlo: «voi non capite…», «voi non potete capire…», dice spesso ai suoi interlocutori.
Ciò che però lascia il lettore davvero spiazzato è l’attitudine con cui Anania affronta l’incontro finale con la madre. In tale frangente si scontrano dentro il cuore e la testa del giovane non solo rabbia e odio, ma anche dovere e destino, poiché in lui è forte l’idea di dover aiutare Olì risollevandola da malattia e povertà, abbracciando di conseguenza il fato indegno che già sentiva esser scritto per lui, e lasciandosi alle spalle Margherita e i suoi desideri di carriera. È in questa parte finale del romanzo, dal ritmo particolarmente serrato, che si evince tutta l’abilità narrativa di Deledda, e la sua destrezza nell’entrare a fondo dentro la mente dei suoi personaggi, poiché spesso il lettore si ritrova a dubitare delle parole che Anania enuncia attraverso il filtro della voce narrante, una terza persona solidissima eppure capace con arguzia di calarsi nei panni del protagonista riportandone i dubbi, le speranze taciute, ma soprattutto le eclatanti affermazioni, le prese di posizione e responsabilità che nascondono in realtà una volontà intrinseca totalmente opposta – da qui l’idea per cui l’agire di Anania sia rivolto verso il suo stesso annichilimento, in una spirale autodistruttiva di cui fino alla fine non sembra prendere effettivamente coscienza.
Una batteria di personaggi che vive le proprie passioni senza conoscere alcuna mezza misura; un’impalcatura narrativa robusta, collaudata; descrizioni liriche, fiabesche, trasognanti dell’ambiente naturale – a mio avviso i momenti in cui lo stile e la lingua di Deledda raggiunge i suoi momenti più alti e raffinati. In Cenere c’è tutto questo, oltre all’estro di un’autrice che sapeva guardare dentro l’animo umano con una profondità che, all’epoca, trovava grande affinità con la letteratura dei grandi prosatori russi, conosciuti e amati da Deledda. Rimaniamo dunque in attesa del secondo titolo dell’autrice per il progetto di Utopia Editore – sicuramente un altro tesoro da (ri)scoprire.
Angela Marino
GENTILISSIMI, NON SO COME RINGRAZIARVI DELLA SPLENDIDA RIPRESA DEI ROMANZI DELLA DELEDDA. “CENERE”, CHE FU ANCHE RIDOTTO COME SCENEGGIATURA DI UN FILM MUTO CON LA MAESTRA DEI MAESTRI ELEONORA DUSE, E’ IL MASSIMO. ROSA RUTA
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