Dario Ferrari, La ricreazione è finita
(Sellerio, 2023)
All’interno dell’università italiana l’istituzione del Dottorato di Ricerca gode di una aura sacra; intorno al sistema barocco che ne regola l’accesso e al bizzarro funzionamento del suo svolgersi quotidiano, è più facile leggere uno sfogo personale sui social che un saggio storico-critico. Ancora più difficile è trovare un romanzo che di questa istituzione mostri tutte le sue idiosincrasie e gli aspetti più problematici. Ora questo romanzo c’è, per fortuna. Non vi aspettate, però, una narrazione paludata o peggio macchiettistica, piuttosto La ricreazione è finita, il nuovo romanzo di Dario Ferrari, è un miracolo di intelligenza e profondità. Senza volerlo demolire, senza la rabbia tipica del rancore, ma con la lucidità di chi ha ben chiaro il ruolo residuale di certe istituzioni innalzate a momento decisivo per il corso della Storia, Ferrari descrive e racconta la vita di dottorando in materie umanistiche nell’università italiana alla fine degli anni ‘10 di questo secolo.
Marcello Gori si aggiudica casualmente un dottorato di ricerca a trent’anni, dopo una vita indolente passata a studiare e a perdere tempo. Come ogni sistema rodato e chiuso, l’ingresso di un elemento estraneo conduce il sistema stesso a proteggersi. Marcello, infatti, è uno sconosciuto, una mina vagante, un problema di cui il professor Sacrosanti (il dominus dei dottorati all’Università di Pisa) avrebbe fatto a meno. A Pisa ci arriva con il treno da Viareggio e questa distanza, seppur minima, segna un confine che nel corso della storia assumerà spessore. Esaltato da questa inaspettata vittoria – e dal fatto che per tre anni, finalmente, qualcuno lo pagherà ogni mese per studiare, potendo così zittire il padre lamentoso – Marcello si avvicina all’ambiente in modo sprovveduto ma caustico. Carlo, però, uno storico ricercatore-assistente di Sacrosanti con il quale Marcello ha un particolare rapporto d’amicizia, lo introduce agli equilibri del Dipartimento, e gli insegna la grammatica con la quale leggere i vari sottotesti che gli si presentano innanzi negli articoli accademici e nei rapporti fra i baroni universitari. Nella lucida follia di un sistema che deve garantire a se stesso continuità e fede, Carlo rappresenta l’adepto perfetto che difende la stessa corda con la quale viene strozzato e che nel romanzo si delinea come l’alter ego perfetto di Marcello.
Devo dire che ho enormi difficoltà a trovare appoggio in Carlo quando provo a partire con una delle filippiche nazional-popolari contro i raccomandati, i cooptati, i baroni, la frustrazione del merito e le logiche di cortile dell’accademia italiana. Non so se sono io a essermi pigramente attestato su posizioni populiste un po’ troppo superficiali o se è lui ad aver ormai introiettato la logica di un sistema tossico; fatto sta che Carlo quella logica da cui è evidentemente schiacciato la condivide in pieno. (p. 92)
Ma il vero colpo di scena della storia non sta nella vittoria “a sorpresa” del dottorato, piuttosto nella definizione dell’argomento di cui Marcello dovrà occuparsi per i successivi tre anni. In questo momento le due figure – Marcello e il professor Sacrosanti – si vengono a incontrare in un campo da gioco inclinato, dove il secondo ha troppo vantaggio e il primo non può che cedere. All’idea di Marcello di avviare una ricerca su Kafka, definita come bislacca dal professor Sacrosanti, quest’ultimo risponde incarnando perfettamente uno dei tratti caratteristici dell’accademia: «restringa il campo della ricerca, lo definisca con precisione e diventi la massima autorità su quel fazzoletto di terra. È così che funziona l’accademia. Si conquisti un feudo in cui è inattaccabile […]» (p. 55).
La riduzione del campo e la contestuale condanna alla residualità del giovane dottorando, si condensano su un nome: Tito Sella. Marcello non ne ha mai sentito parlare, ma il professore lo convince a intraprendere un percorso su questo autore italiano del secondo Novecento, viareggino come Marcello, il cui archivio è stato recentemente allocato alla Biblioteca Nazionale Francese a Parigi. Lì, consiglia il professore, Marcello dovrebbe andare a cercare La fantasima, ovvero l’autobiografia di Sella che nessuno ha mai trovato e a cui egli stesso, però, fa spesso riferimento nei carteggi e nelle altre sue opere. Marcello non sa minimamente chi sia Tito Sella, ma decide di abbracciare il progetto, memore dell’insegnamento di Carlo: «ricordati: il tuo mentore è l’unica via che hai per la carriera accademica, e come tale lo devi venerare e riverire» (p. 64).
Si scoprirà che Tito Sella ha un passato ingombrante e che a Viareggio era diventato famoso durante gli anni settanta in occasione degli sconvolgimenti che rivoltarono i rapporti tra lavoratori e padroni e all’interno delle università (e su quest’ultimo punto Pisa non è certo una scelta casuale). Il lavoro archeologico sulla vita di Sella diventa un modo, per Marcello, di comparare se stesso a questo autore che sta scoprendo passo passo; nel frattempo la sua vita viene condizionata da questo attraversamento e alcuni passaggi si dimostrano rivelatori. L’esperienza di studio parigina, poi, si trasformerà in un momento iniziatico che lo condurrà a dover, finalmente, fare i conti con tutto quello che nella propria vita ha sempre rimandato.
Il confronto, però, tra la propria esistenza e quella ricostruita di Tito Sella, non viene mai riprodotto in maniera binaria, ma è anzi molto ben intrecciato con il resto della trama e l’autore lascia al lettore il compito di risalire a quale filo corrisponde una certa riflessione. Al variare delle condizioni si contrappone sempre una continuità delle dinamiche con le quali ci si rapporta al reale che, se da una parte può sembrare un tentativo di semplificazione della realtà, dall’altro rappresenta un modo genuino e scanzonato di leggere le vite di ognuno.
È qua, infatti, oltre che nell’intreccio originale e ben organizzato, il grande merito di questo libro: la scrittura non guarda mai se stessa, è sempre aggraziata e gioiosa di una spiritosa critica verso la severità. In alcuni momenti si ride moltissimo, di una risata pungente che ricorda i migliori passaggi di Mattia Torre, quelli più rivelatori. Sulle pagine si vede all’opera quello sguardo interiore che davanti alla complessità non si auto-condanna a una vita infelice, ma nemmeno finge che tutto sia normale e ineluttabile. La ricreazione è finita è, quindi, un romanzo amaro per certi versi, ma di quell’amarezza che non può trasformarsi in cattiveria e risentimento, piuttosto ci ricorda (e l’epilogo in questo è perfettamente allineato) che il peso del mondo non deve per forza gravare tutto sulle nostre spalle.
Saverio Mariani
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