Le gabbie del politically-correct: “Stacy”

Stacy, Gipi
(Coconino Press, 2023)

stacyjStacy è l’ultima graphic novel di Gipi, al secolo Gian Alfonso (detto Gianni) Pacinotti, riconosciuto fumettista e illustratore, nonché primo della categoria a rientrare tra i dodici finalisti del Premio Strega con la sua (bellissima) Unastoria. Da sempre distintosi per una certa cruda schiettezza nel raccontare anche brutalità senza peli sulla lingua, e comunque capace di una morbida malinconia che, pur trovando la sua massima espressività negli acquerelli, sa farsi strada anche nei tratti a china, in Stacy Gipi va oltre e non risparmia ogni forma di politically correct.

Il protagonista è Gianni, uno sceneggiatore di successo; le corrispondenze con l’autore (oltre che nel nome e nel character design, nella professione: Gipi infatti si è cimentato anche con la regia) non sono casuali, dal momento che la trama prende spunto da una vicenda autobiografica. All’apice della sua carriera, durante un’intervista, Gianni racconta un sogno. Un sogno che è una fantasia violenta, condita da un commento – che potremmo definire fat-shaming – che diventa, in modo forse inaspettato, forse ironico, il vero focolaio della catena di polemiche che si riversano sul protagonista, isolandolo sul lavoro, alienandolo dagli amici e da chiunque altro. All’episodio, quasi tabuizzato, verrà in seguito fatto riferimento come al “fattaccio delle tre parole”, una formula che sembra richiamare le querelle o fatti epocali del passato, quelli che segnano un “prima” e un “dopo” e che nel bene e nel male si ricordano.

“Ma non si può più dire niente!” è l’eco che aleggia inesorabile in queste pagine, e che di solito si riduce a scudo d’elezione di chi vuole solo sentirsi legittimato a dare il peggio di sé senza essere giudicato. L’operazione che fa Gipi è però più sottile di così. Rischiosa, difficile, consapevolmente non fatta per piacere a tutti, ma necessaria nella funzione che ha l’arte di rimestare l’indicibile, masticarlo e risputarlo per noi palati di fruitori.

Guardi, le anticipo la domanda: “Perché sono attratto dal male?” Perché credo che stiamo vivendo un momento in cui è in corso una sorta di rimozione psicologica del male […] e ho l’impressione che si stia imboccando una strada pericolosa, sviluppando l’abitudine di considerare l’uomo (e la natura) come intrinsecamente buoni e attribuendo l’esistenza del male agli effetti di costrutti sociali. Costrutti sociali che, in quanto tali, si immagina di poter sanare con metodi che, credo, si riveleranno controproducenti. Con la modifica del linguaggio, per esempio (p. 27)

La graphic novel si snoda attraverso due linee narrative, diversificate dalla distribuzione delle scene sulla pagina, libere e ariose in una, strette in una gabbia* soffocante senza spazi bianchi nell’altra. La prima dovrebbe rappresentare la “vita interiore” del protagonista – è qui che tutte le sue fantasie, i suoi pensieri più reconditi e inaccettabili prendono vita e vengono espressi senza freni; la seconda è quella della “vita fuori”, o per usare una definizione ricorrente nel libro “il bel mondo”. “Il bel mondo” è governato dal giudizio altrui – dalle sue leggi, dai suoi capricci – e dal terreno dove più facilmente prolifera, infesta e si batte: i social network. Il bel mondo è quello dove Gianni si censura, risultando misurato, progressista, semplicemente gradevole, socialmente accettabile fino all’esasperazione. Il contrasto fra le due linee narrative è forte e i loro punti di intersecazione disturbano la pagina come crepe su un muro. Alle linee narrative si intervallano a volte delle sceneggiature; commenti sparsi sembrano risuonare riflessioni metaletterarie.

Seguendo le due linee narrative, il lettore assiste da una parte a una progressiva discesa nel baratro di Gianni, sempre più dominato dai suoi demoni, dall’altra a un lento e faticoso percorso di reintegrazione nel ‘bel mondo’, che offre spunti di riflessione, oltre che sulla domesticazione della società, sui social network e sul loro potere. La viralità dà, la viralità toglie; come può farsi strumento del successo e innalzare in un giorno sull’altare di 10k followers, così può anche farti diventare un reietto. Un solo sgarro può essere fatale: come dimostrato anche da recenti fatti di cronaca, la rete non perdona e la rete non dimentica. Tutto resta registrato e immortalato per la pubblica gogna.

Mi vergogno molto per aver tanto sofferto per una cosa così piccola. Il fatto è che non credevo che lo sguardo degli altri fosse, per me, tanto importante. (p. 229)

La riflessione sui social network e sul costante bisogno di approvazione altrui che li guida non si ferma al potere di condizionamento che essi hanno sulla ‘vita reale’, ma indaga anche il modo in cui impoveriscono la nostra vita interiore. I demoni del protagonista nascono nel momento in cui egli parla di una questione intima e dolorosa in pubblico, per la sola ragione di – per usare il lessico dei social media strategists – ottenere più engagament. Il dolore fa share: lo dimostrano i trend odierni che vedono influencers piangere in diretta streaming, riprendere parenti gravemente malati in ospedale, fare torte e innalzare altarini domestici per i propri morti.

Dolore e sentimenti diventano strumento, spettacolo; nel momento in cui li usiamo per lo sguardo altrui, ne perdiamo l’essenza, smettiamo di sentirli per quello che sono, in una generale anestetizzazione e appiattimento del profondo. È una deriva pericolosa: il sentire si atrofizza, la complessità viene ingabbiata in schemi comportamentali e di pensiero rigidi e semplificati.

In Stacy, Gipi riporta a galla una sorta di rimosso collettivo e mostra quanto sia innaturale questa ricercata impeccabilità nelle parole, nelle azioni, nei comportamenti, una impeccabilità che si specchia nella curatissima finzione di certa vita pubblica o di Instagram; nell’uno o nell’altro modo, si cerca sempre di mostrare solo il meglio di sé stessi. Ma l’uomo non è una creatura così ordinata, e i conti con l’altro sé non si fanno nascondendo la polvere sotto al tappeto o censurandone il linguaggio. La risposta dell’autore, credo, è che si debba guardarlo in faccia per quello che è, dargli spazio, non fingere che non esista. Le parole, sì, sono importanti; ma non se sono svuotate di ogni anima, intenzione, significato.

Il n’est d’autre chose à tuer dans cette vie que l’ennemi intérieur, le double au noyau dur. Le dominer est un art. À quel point sommes-nous artistes?
(J’ai tué ma mère, Xavier Dolan)

Alessia Angelini

* Nel linguaggio del fumetto per ‘gabbia’ o formato si intende la ripartizione delle vignette sulla tavola.

Immagine in evidenza: “Stacy”, Gipi. Fonte: https://www.coconinopress.it/prodotto/stacy/

2 Comments

  1. Grazie Alessia, per questa recensione acuta e partecipata. Non conosco l’opera e non amo molto il genere del graphic novel, ma una recensione intelligente permette a volte di entrare in un’opera ancor prima di averla letta.

    Cordialmente,

    Gianluca

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