“La compagnia delle anime finte” di Wanda Marasco, finalista Strega 2017: la parola all’autrice

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Wanda Marasco, nata a Napoli nel 1953, è finalista al Premio Strega 2017 con il romanzo La compagnia delle anime finte, edito da Neri Pozza.
Laureatasi alla Federico II di Napoli in Filosofia, ha poi frequentato il corso di regia all’Accademia d’Arte Drammatica Silvio D’Amico, a Roma. Ha iniziato la sua carriera di scrittrice pubblicando raccolte di poesie, dopodiché si è data all’insegnamento nel quartiere Scampia, nella sua città natale. Il suo primo romanzo è stato L’arciere d’infanzia nel 2005, che ha ricevuto il premio Bagutta opera prima. Nel 2007 ha poi tenuto un ciclo di lezioni alla Federico II, continuando a dedicarsi nel frattempo alla drammaturgia e alla letteratura.

In occasione della sua candidatura allo Strega, abbiamo scambiato quattro chiacchiere con l’autrice a proposito della sua opera – e non solo.

Quale significato ha una candidatura al Premio Strega con una pubblicazione che parla senza mezzi termini di realtà spesso scomode e sempre dolorose?

Se provassimo a ricordare quanti dei romanzi che nel tempo hanno partecipato allo Strega narrano storie scomode e dolorose, l’elenco sarebbe lungo.
La letteratura parte dai saperi e dalla vita. Sappiamo bene che ogni cognizione della vita si basa su una cognizione del dolore. La mia scrittura vuole raccontare la realtà e l’interiorità umana, il mondo degli “umiliati e offesi”. Giocoforza il tema del dolore prevale sugli altri. Ma credo che le mie pagine siano attente a cogliere anche il paradosso e l’umorismo insiti in ogni vicenda umana.
La Compagnia delle anime finte, come è stato scritto, è anche uno Stabat Mater, il dolore non poteva non essere il suo centro di irradiazione. Mi pare che il senso di partecipare allo Strega con questo tipo di romanzo possa essere individuato nel solo scopo di voler fare “Letteratura”.

Accanto a una Napoli sempre affascinante e poetica, come accennato, viene raccontata dall’interno una città brutale, che trova strade alternative alla legalità e che non sempre sa scrollarsi di dosso una certa miseria. Qual è il suo rapporto con questa metropoli tanto contraddittoria?

la-compagnia-delle-anime-finte-01-280x150Il mio rapporto con Napoli non è mai stato immediato e facile. Ho vissuto questa città soprattutto attraverso le mie esperienze di insegnante e di teatro. Abito sulla collina di Capodimonte. Vedo la città dall’alto, in una prospettiva  che mi aiuta a percepire meglio le sue stratificazioni. Napoli possiede le contraddizioni di una qualunque metropoli e di molte città del sud del mondo.
Negli ultimi anni ci sono stati dei progressi significativi, ma i vicoli dell’infanzia napoletana non sono mutati di molto rispetto a quelli degli anni ’50 e ’60 che racconto nel mio romanzo. La foresta di cellulari, motorini e computer non ha cancellato i mali più antichi, il degrado e l’emarginazione. Ma penso che Napoli sia capace come poche altre città al mondo di guardarsi nelle viscere e nelle zone ancora buie, di rigenerarsi come ha sempre fatto nella sua storia più profonda.

Le anime “finte” a cui si fa riferimento nel titolo e che popolano poi il la storia dall’inizio alla fine sono forse quelle che, allo stesso tempo, rappresentano più autenticamente la natura umana. Lei che cosa ne pensa?

Le “anime finte” svelano la verità sentendosi potenziate e protette dagli strati di una maschera. È questo il metodo con cui cercano, come dice Dostoevskij “quanto uomo c’è ancora nell’uomo” e spiano dai propri guasti quelli degli altri.

Stando alla definizione che se n’è data, l’opera rientra nel genere del romanzo. Il susseguirsi di episodi così diversi e autonomi fra loro non la rendono, però, corale come una raccolta di racconti con una cornice in comune?

29532La Compagnia delle anime finte, come suggerisce il titolo di sapore schulziano, mette in scena una serie di personaggi e di vicende, ma le storie del vico non sono scisse da quella primaria di Rosa e Vincenzina. Come matrioske si aprono una dentro l’altra.
Rosa, la voce narrante, sparge dei precisi segnali fin dall’inizio del romanzo. Avverte che la narrazione è la metafora di un “corteo”  che prenderà l’avvio dal corpo della madre, e dice che la narrazione sarà sostanziata da tante specchiature lungo il percorso memoriale.
Dopo la ricostruzione della storia di Vincenzina, appaiono come sul boccascena di un teatro le “anime” conosciute e reinventate “vascio dopo vascio”, quando Rosa era costretta a seguire la madre che praticava l’usura.
Mariomaria, Annarella, Emilia e gli altri rappresentano le “infezioni drammatiche” subite dalla ragazzina durante la crescita e, come accade nella struttura di una Sacra Rappresentazione, sono “stazioni” che segnano il grado di consapevolezza raggiunto durante il percorso. Dove, come scrive Aldo Carotenuto in un suo prezioso saggio, “ogni ferita dovrà diventare feritoia”, ovvero il punto da cui si scruta e meglio si conosce se stessi e l’altro.

Il continuo rapporto presente-passato e il dialogo ideale fra Rosa e la madre Vincenzina, ormai deceduta, farebbe pensare alla morte come a un doppio della vita, più che al suo contrario.

Il passato e il presente, i dialoghi spettrali e la realtà, la morte di Vincenzina e di Rosa sono dimensioni speculari. Nel romanzo si inseguono come voci in un controcanto. Quando si unificano nel finale hanno già narrato i vari destini e duellato come accade in ogni storia di amore e di dolore. Scopriremo che la morte della madre equivale alla verità della figlia, e viceversa. In questo senso è vero che ogni morte narrata e reinventata come un cammino della coscienza è un doppio della vita.

Che ruolo hanno i numerosi dettagli attraverso cui vengono presentati di volta in volta i personaggi con cui Rosa entra in contatto – da Annarella ad Angiulillo, da Emilia a Mariomaria, da Nunziata a Iolanda?

I dettagli, la “messa a fuoco” per ogni personaggio di particolari, immagini e pensieri hanno il ruolo di raccontare e dimostrare la ripetibilità del guasto in queste creature. E rappresentano i punti che tracciano la mappa di Rosa nel suo percorso di catarsi.

L’epilogo del libro riavvicina inaspettatamente Rosa e Vincenzina nella stessa sorte. Questa “riparazione” finale è da considerarsi più la conclusione di un dramma o il potenziale inizio di nuove e meno sofferte vicende?

38b9e51f5224ed8aa6fa8dfaa4bee2a2_xlLa “riparazione finale” non è la conclusione di un dramma. La Compagnia delle anime finte è la terza sequenza di una tetralogia. Le prime due sono L’arciere d’infanzia e Il genio dell’abbandono. La quarta sarà il romanzo che ho appena iniziato.
Il “dramma” assumerà nuove maschere. I temi resteranno quelli che appartengono da sempre alla letteratura: il male e il bene, la realtà e le illusioni, il dolore e l’utopia della felicità, la fragilità e la forza delle idee e delle passioni.

Eva Luna Mascolino

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