Non sollevare quel velo dipinto che i viventi chiamano vita

il velo dipinto_copertinaLa nuova, morbidissima edizione Adelphi de Il velo dipinto, uno dei romanzi più noti di William Somerset Maugham, mi chiama dagli scaffali della libreria fin da quando l’ho vista la prima volta. Sentivo che la lettura di questo libro mi avrebbe avvinta, arricchita e sconvolta, eppure avevo esitato a compierla fino a che non ho avuto la possibilità di prenderlo in prestito in biblioteca. A quel punto, sono bastati tre giorni di pagine rubate tra un impegno e l’altro per divorarlo fino in fondo, e ho avuto la conferma che le mie sensazioni erano esatte.

Se si pensa alle avanguardie e agli stili innovativi e articolati che dominavano la scena letteraria degli anni ’20, il romanzo di Maugham, pubblicato nel 1924, appare ancorato ad un filone diverso, sorretto da dialoghi brillanti e da una trama magistralmente orchestrata. D’altra parte, come si legge nella nota iniziale dell’edizione Adelphi, lo stesso Glenway Wescott, grande amico e ammiratore di Maugham, consigliava ad un ipotetico lettore delle sue opere:

“[…] devi imparare a riconoscere la sua idea in quell’involucro di realtà – un episodio, un dialogo, una breve sequenza di causa ed effetto – dove hanno origine le idee.”

Lette a posteriori, queste parole appaiono quantomai adeguate a descrivere quel che mi ha fatto provare questo romanzo. Ogni volta che credevo di aver individuato in un dialogo o in una descrizione il bandolo della matassa, la chiave di volta che mi avrebbe chiarito a cosa l’autore voleva iniziarmi con la vicenda narrata, subito un evento successivo vanificava i miei progressi e le mie certezze si trasformavano in dubbi, i dubbi in riflessioni e le riflessioni in altre domande.

Queste parole, quindi, non pretendono di essere un’analisi accurata di un capolavoro della letteratura inglese quale Il velo dipinto, ma piuttosto una personalissima rielaborazione di quello che l’opera ha smosso e costruito in me.

Il casus da cui prende le mosse alla vicenda è un classico di ogni letteratura: una moglie insoddisfatta della propria vita coniugale, molto meno entusiasmante di quanto aveva sognato in gioventù, un marito distante e troppo infatuato di lei per accorgersi del suo adulterio, un amante fatuo e inconsistente che professa amore eterno per la suddetta moglie distratta. Kitty Fane, la protagonista, parrebbe quasi una Madame Bovary inglese, se non fosse che Il velo dipinto è stato scritto da Maugham e non da Flaubert e gli avvenimenti prendono ben presto una piega inaspettatamente truce.

Walter, il marito di Kitty, viene descritto attraverso gli occhi di lei come un uomo privo di qualsiasi personalità, restio a manifestare dolcezza e fragilità, privo di umorismo e di carisma, ma follemente innamorato di sua moglie. L’amore per Kitty è per lui totalizzante, non lo vediamo se non in funzione della donna per la quale farebbe qualsiasi cosa. È per questo che, proprio come Kitty, siamo estremamente sorpresi quando, nel momento in cui Walter scopre di essere regolarmente tradito, pone la donna che ama davanti ad un brusco e crudele ultimatum: riuscire ad ottenere dall’amante la promessa di divorziare da sua moglie e sposarla, o seguire Walter stesso verso una probabile morte.

Il contesto in cui la vicenda si svolge, infatti, è la colonia inglese a Hong Kong e Walter, medico e batteriologo, ordina a Kitty di seguirlo nella città di Mei-tan-fu, dove imperversa una implacabile epidemia di colera.

La situazione di Kitty è ispirata all’episodio dantesco di Pia de’ Tolomei narrato nel Canto V del Purgatorio, vv. 133 – 136:

“ricorditi di me, che son la Pia;

Siena mi fé disfecemi Maremma:

salsi colui che inanellata pria

disposando m’avea con la sua gemma.”

A riguardo, Maugham scrive nella prefazione:

“Ersilia mi disse che Pia era una gentildonna senese; il marito, sospettandola di adulterio e non osando metterla a morte per timore dei familiari, la portò in un suo castello in Maremma nella speranza che i mefitici vapori del luogo provvedessero alla bisogna; ma poiché ella tardava a morire si spazientì e la fece gettare dalla finestra.” (p. 11)

maughamQuesta storia colpisce l’immaginazione dell’autore, che ne farà poi il fulcro di questo romanzo. Se la situazione di partenza è la stessa sia per Pia che per Kitty, tuttavia, quest’ultima troverà un destino molto diverso da quello della sua sventurata controparte medioevale, ed è qui che per me la lettura ha iniziato a farsi davvero interessante.

Ho letto che Maugham è stato spesso accusato di misoginia: non so se era davvero misogino e se quindi il personaggio di Kitty, che a me è sembrato meravigliosamente vivo, cangiante e solido, è invece concepito per poter essere disprezzato. Quel che so è che Maugham è un autore talmente bravo che è riuscito a creare una storia che esiste a prescindere dalle intenzioni di chi l’ha scritta, e che quindi il misogino sarà al più chi in Kitty vede un modello negativo e odioso.

Una volta arrivata a Mei-tan-fu, dopo aver amaramente scoperto quanto poco al suo amante importava di lei, Kitty inizia un percorso di rinascita interiore che la porta a comprendere davvero gli avvenimenti che hanno segnato la sua vita e a vedere con lucidità e consapevolezza se stessa e chi le sta intorno. Kitty si rende conto che suo marito l’ha idolatrata senza conoscerla davvero e non si fa una colpa per essere stata una ragazza frivola e superficiale: è stata cresciuta per comportarsi in un certo modo e non ha potuto far altro che agire di conseguenza.

La giovane riesce a vedere con chiarezza anche il suo amante, si rende conto di essersi completamente affidata ad un uomo fatuo e inaffidabile, eppure mi ha colpito l’indipendenza e la lucidità con cui Kitty riesce a giudicare la propria situazione:

“[…] il legame con Townsend le appariva, certo, deplorabile e anche scandaloso, ma, più che da pentirsene, una cosa da dimenticare. Era come aver commesso una gaffe in società, non ci si poteva far niente, era tremendamente mortificante, ma attribuirvi troppo importanza denotava mancanza di buonsenso.” (p. 174)

Un altro particolare che mi ha piacevolmente sorpresa è il fatto che l’acquietarsi di Kitty e il suo diventare sempre più saggia e determinata la portano a vedere il marito sotto una luce pietosa, ma mai, banalmente, ad innamorarsi di lui. Kitty desidera che Walter si renda conto che, se confrontati con la morte e la desolazione da cui sono circondati, le loro scaramucce private non hanno alcun valore: vuole che lui la perdoni non perché pensa di averne bisogno, ma perché lui stesso possa essere in pace con la propria anima e viverle accanto come un buon amico.

Se Kitty mi è apparsa sotto una luce sempre più positiva con il progredire del romanzo, non sono quasi mai riuscita a provare simpatia per Walter. È certo vittima anche lui di un sistema che lo obbliga a dover vendicare il proprio orgoglio maschile ferito, e di certo vittima di una concezione di amore distorta e pericolosa:

“Sapevo che eri sciocca e frivola e una testa vuota. Ma ti amavo. Sapevo che le tue aspirazioni e i tuoi ideali erano banali e volgari. Ma ti amavo. Sapevo che eri una persona di second’ordine. Ma ti amavo.” (p. 68)

Insomma, chi si rivolge in questo modo ad una persona che ama davvero? Walter fallisce dove Kitty riesce tanto bene: non acquisisce mai reale consapevolezza di quello che è e delle ragioni che lo spingono a provare certi sentimenti nei confronti di Kitty. Al contrario, impenetrabile e caparbiamente affogato nel suo lavoro, sembra continuare a cercare disperatamente uno scenario in cui poter essere il buono e poter meritarsi, agli occhi propri e della società, la gratitudine e il rispetto della propria moglie.

Quel che Kitty capisce e che a Walter resta oscuro è che nella storia e nella vita non possono esserci vincitori né vinti, che l’unico avversario da comprendere e imparare a conoscere è invece la vita stessa, come suggerisce la poesia di Shelley da cui il romanzo prende il titolo:

“Non sollevare quel velo dipinto, quel che i viventi
chiamano Vita: per quanto forme irreali vi sian ritratte
e tutto quello che vorremmo credere
vi sia imitato a colori capricciosamente,
dietro stanno in agguato Paura e Speranza,
Destini gemelli, che tessono l’ombre in eterno
sopra l’abisso cieco e desolato.[…]”

Sollevare il velo dipinto, incontrare la vera sofferenza, affrontarla e rinascere è invece l’unico modo per vivere una vita che ha un senso, sembra raccontare la storia di Kitty. E non c’è modo migliore per lasciare un segno nel mondo che una vita bella.

(Loreta Minutilli)

[in copertina: “Pia de’ Tolomei”, di Dante Gabriele Rossetti, e Greta Garbo nel ruolo di Kitty nella trasposizione cinematografica de “Il velo dipinto” del 1934]

 

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