Mia e la voragine: una fiaba contemporanea

Mia e la voragine, Diana Ligorio
(TerraRossa Edizioni, 2022)

Mia-e-la-voragine_fronte-di-copertina-691x1024Mia è una bambina di quasi undici anni e la voragine è una gravina, complesso geologico tipico, in Italia, dell’altopiano delle Murge. La voragine si è mangiata il padre di Mia quando lei era piccolissima e adesso sua madre, Alma Distante, la porta ogni estate a Dolina, il paesino affacciato sulla gravina di cui è originaria  e microcosmo a sé che la bambina fatica a sopportare.

Per dirla tutta, Mia fa fatica a sopportare anche la sua stessa madre, distante di nome e di fatto, pediatra in gamba e rispettata da tutto il paese ma spesso disattenta, disinteressata, alienata dai bisogni e dalle necessità di sua figlia, assorbita tutta dal lavoro e inseparabile dal ricordo del marito in forma di foulard. A Dolina, Alma si sbarazza quotidianamente della camera da letto di Mia – che, come spesso capita nelle ‘case dell’estate’, dorme in salotto – per far posto ai pazienti nel suo studio improvvisato, costringendo la bambina a passare le sue giornate fuori, nonostante abbia un problema alla gamba che le impedisce di saltare e andare in bicicletta come fanno i suoi coetanei – un problema alla gamba che sembra non avere una ragione evidente.

La fantasia di Mia trasfigura tutto ciò che tocca, e se questo si limita a semplici assimilazioni naturalistiche nella parte iniziale del libro – una bambina che squittisce come un topo, e diventa pertanto la ‘bambina-topo’, persone comunemente definite quadrupedi e bestie, capelli che diventano rigogliosi rami di un albero, donne-anfibio che strisciano in profondità –, la tendenza conosce una escalation man mano che ci si avvicina alla fine, diventando un fiume narrativo immaginifico e stupefacente, un universo unico dove tutta la realtà si fa altro.

All’alba dei suoi undici anni, Mia scappa inseguendo un’infanzia in via d’estinzione e forse mai vissuta appieno – lei che è dovuta crescere in fretta per badare a se stessa e anche ad Alma –, inseguendo forse il ricordo di suo padre in fondo alla gravina, forse una reazione da parte di sua madre. Vive un’avventura che la riporta infine a casa, un po’ più riconciliata con l’esistenza e persino con Dolina.

Mia e la voragine è una fiaba contemporanea, con i suoi eccessi di fantasia magica e persino alcuni topoi del genere – la struttura, certe caratteristiche del linguaggio, la side quest, l’aiutante, gli animali antropizzati (o, viceversa, esseri umani soprannaturali e animaleschi), il tempo sospeso, l’iniziazione, il lieto fine; ma è anche una storia comunissima di un genitore e di un figlio al tempo stesso uniti e separati da un evento traumatico, che per questa e altre ragioni non riescono più a comunicare efficacemente. È la storia di due persone che si vogliono più bene di quanto riescano a dirsi e a dimostrarsi, di un legame viscerale che non va trascurato.

La storia è raccontata in prima persona da Mia, seguiamo il flusso dei suoi pensieri che si tramutano in base all’ambiente in cui nascono – pensieri ora detti “anfibi”, ora “fiume”, ora “mosca”; inizialmente avevo trovato lo stile inadeguato al narratore, non sufficientemente credibile, ma avanzando nella lettura ho avuto modo di ricredermi, di dare un senso agli elementi che non mi convincevano. Un esordio, questo di Ligorio, consigliato, per semicitare le direttive dell’editrice, ai “grandi che si sentono un po’ bambini e ai bambini che si sentono un po’ grandi; a chi ha un rapporto conflittuale con i propri genitori; […] a chi pensa che i libri per ragazzi siano dei classici per tutte le età […]”.

Alessia Angelini

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