I miei stupidi intenti: il dramma di essere mortali

I miei stupidi intenti, Bernardo Zannoni
(Sellerio, 2021)

copertina_i miei stupidi intentiLa parola «intento» indica, secondo il vocabolario Treccani, «il fine che ci si propone di raggiungere e a cui tende l’azione e il desiderio». La cosa interessante di questa definizione è che, rispetto alla parola «intenzione»,  sembra contenere una spinta più forte, più determinata e più strettamente collegata a un obiettivo specifico. In questo senso, poiché l’intento richiama appunto un volgersi verso un fine ben definito, potrebbe sembrare strano il fatto che Bernardo Zannoni abbia scelto questa parola per dare il titolo alla sua opera prima, un romanzo che ha per protagonista un animale – una faina, nello specifico. Lo scopo principale di un animale è infatti la sopravvivenza e la conservazione della specie, niente a che vedere con quello che noi definiremmo di solito un intento consapevole.

Eppure il titolo scelto dall’autore non è affatto inappropriato, come si scopre man mano che la lettura procede. I miei stupidi intenti è infatti un romanzo di animali, ma è anche un romanzo di formazione, in cui Archy (il personaggio principale) conoscerà a sue spese il vero significato del verbo «intendere».

La narrazione si apre con una scena che definisce subito il tono e l’atmosfera: è inverno, il padre di Archy è stato ucciso dall’uomo perché rubava le galline nel pollaio, la madre si aggira nervosamente nella tana, imprecando tra sé e cercando di capire come fare per sfamare i suoi cinque figli. La dura legge della natura segna subito una separazione tra i cuccioli: da una parte Leroy e Louise, forti e in salute, dall’altra Otis e Cara (il primo troppo piccolo e delicato per sopravvivere, la seconda cieca da un occhio), mentre Archy sembra ritrovarsi in una strana via di mezzo. Pur non essendo il più debole del gruppo, non riesce comunque a rendersi utile per la sua famiglia. Vorrebbe essere come Leory (che impara in breve a cacciare), ma il giorno in cui prova a rubare delle uova da un nido di pettirosso cade e rimane zoppo.

Storpio e incapace di stare al passo con gli altri, Archy diventa quindi un peso per sua madre, che decide infatti di venderlo in cambio di una gallina e mezzo a Solomon, la vecchia volpe usuraia che vive in cima alla collina. La vita del protagonista subisce così il primo vero scossone: anche se fino a quel momento la sua esistenza era già stata caratterizzata da violenza e durezza, l’abbandono da parte della madre segna un vero e proprio spartiacque per lui.

Nei racconti di formazione c’è sempre un momento in cui il personaggio fa un incontro decisivo o si scontra con qualcosa che lo costringe a evolversi, ed è proprio questo quello che accade ad Archy. Solomon non è solo un vecchio usuraio dal cuore duro che tiene sotto controllo – con i suoi registri dei debiti – tutti gli abitanti dei campi di Zò. La sua vita nasconde un segreto, un tesoro che ben presto condividerà con Archy: Solomon sa leggere e scrivere, e conosce la Bibbia. Quando è sicuro di potersi fidare di lui, insegnerà ad Archy tutto ciò che ha imparato su Dio e sulla morte. Questo dono diventerà una maledizione per la faina, che fino a quel momento aveva vissuto inconsapevole di ciò che significa essere mortali.

Tale presa di coscienza cambia per sempre la percezione di Archy. Se fino a quel momento il suo unico intento era stato sopravvivere come un animale – in maniera istintiva, senza nemmeno rendersi conto che stava già di fatto combattendo contro la morte – adesso la lotta per la sopravvivenza assume un significato diverso. Per la prima volta capisce che un giorno dovrà morire, e questo pensiero lo getta nello sconforto più totale («Mai avrei detto di poter morire a questo mondo. Dovendo morire, il mondo mi diceva che non era mio»).

C’è un elemento ancora più angosciante nella scoperta di Archy. Se per gli uomini l’idea di Dio può essere un conforto, qualcosa che garantisce loro la vita eterna – almeno quella spirituale – per gli animali non c’è salvezza. Nessun Dio ha creato un paradiso per loro («Gli animali non finivano da nessuna parte e questo mi diede angoscia»). Così, l’unica cosa che rimane da fare è scrivere la propria storia. Solo in questo modo si può cercare di liberarsi momentaneamente dall’idea della morte, creandosi l’illusione di lasciare una traccia nel mondo («Avevo intrappolato la mia prigione nella carta. Ero di nuovo libero, e triste»). E Archy scopre di essere particolarmente bravo in questo, perché, come dice Solomon, in quello che lui scrive c’è amore.

La morte e il ruolo catartico della scrittura sono solo alcuni dei temi che Zannoni riesce a sviscerare in poco più di duecento pagine. Nel libro c’è anche la riflessione del tempo, strettamente collegata alla scoperta di Dio e della mortalità. Un giorno, un debitore di Solomon porta in pegno un oggetto strano. È un orologio – o come dice la volpe «una brutta roba. Fa il conto di quanto ti manca a schiattare». Così, i due animali scoprono che il tempo non è solo il susseguirsi delle stagioni, ma è anche l’avvicinarsi verso la fine.

Una sola cosa riesca a distrarre Archy da questo scorrere inesorabile di minuti, ovvero l’amore per Anja, una giovane faina che un giorno si presenta alla tana di Solomon («C’era qualcosa che stava misurando, prima dell’arrivo della mia morte. Era l’arrivo dell’autunno, era Anja»). Questa volta è l’istinto a salvarlo dall’angoscia anche se il sentimento che prova per Anja sembra essere più consapevole rispetto ai suoi amori giovanili con la sorella Louise. Al contrario di quanto gli succedeva in passato, adesso il protagonista sa che l’amore è solo una salvezza momentanea, ma nonostante questo decide di assecondare i suoi sentimenti («Mi chiedevo perché andare avanti, perché dare a Dio la possibilità di farmi ancora del male. Andavo avanti lo stesso»).

Bernardo Zannoni ha scritto un libro che stimola molte riflessioni, e l’ha fatto assumendo un punto di vista originale. Fin da piccoli siamo abituati a sentire gli animali parlare attraverso le favole, ma è raro sentirli veramente protagonisti di una storia. È sempre lo sguardo umano che li definisce, e raramente la storia è raccontata dalla loro prospettiva. I miei stupidi intenti riesce invece a centrare l’obiettivo: è una storia di animali, di istinti, di violenza, che rifiuta la rappresentazione idilliaca della natura, ma allo stesso tempo è un romanzo che parla di noi, di cosa significa essere umani, ma soprattutto di cosa significa essere mortali.

Tutto questo è ben riuscito anche grazie allo stile del romanzo. Fin dalle prime righe, infatti, Zannoni dà mostra della sua buona scrittura, perché riesce a rendere le scene drammatiche mantenendo uno stile asciutto, essenziale. L’uso della prima persona permette poi all’autore di rendere un fortissimo grado di immedesimazione nel lettore. Le sensazioni di terrore e sgomento che Archy prova sono rese con delle metafore semplici ed efficaci («Fui colpito da una forza invisibile. Il peso dell’aria, della terra sotto le zampe, del cielo, del bosco, di ogni fiume mi schiacciò sotto di sé. Mi spezzai a metà»). Paradossalmente, tramite la storia di una faina, siamo costretti a ricordarci cosa significa essere umani.

Pur essendoci molto pathos nella narrazione, l’autore non indugia in sentimentalismi o riflessioni lacrimevoli.  Il dramma della natura – animale e non – viene quindi rappresentata nella sua cruda semplicità: la vita è tutta un fluire verso quell’ «ultimo spavento, che si affronta da soli, dall’inizio alla fine».

Francesca Rossi

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